Anomalie d’onda nel Sinis
16 Aprile 2008
La nostra inchiesta sulle ‘aree del (supposto) tsunami’, dove intervengono gli attori diretti della ricerca scientifica sui monumenti interessati, vede in questo numero l’intervento di un altro archeologo sardo, Alfonso Stiglitz, che da diversi decenni si occupa scientificamente della splendida area del Sinis (RED).
Alfonso Stiglitz
Il Sinis è una penisola di circa 200 kmq, in provincia di Oristano, chiusa da tre lati dal mare e caratterizzata dalla presenza di stagni pescosi, saline, approdi e terreni agricoli che ne hanno fatto una delle aree a più alta densità di popolazione nell’antichità. In particolare in età nuragica con i numerosi nuraghi, spesso complessi, che distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro. La loro storia, come nel resto dell’isola dura per una parte del secondo millennio, per declinare con il Bronzo finale, a partire dal dodicesimo secolo a.C., quando la società nuragica nella sua evoluzione supera quella forma architettonica ormai legata a un mondo non più al passo con i tempi. Ma questo non significa abbandono del Sinis. Sono noti infatti decine e decine di insediamenti; è un epoca di grande fiorire economico e culturale che avrà il momento culminante, nel primo millennio, con lo straordinario episodio delle statue di Monti Pramma, al centro di quell’area che, cioè, sarebbe dovuta essere desertificata a causa del maremoto.
Le belle e suggestive immagini di Francesco Cubeddu affascinano chi visita la mostra Atlantika di Sergio Frau o consulta il relativo catalogo. Sono immagini di nuraghi coperti da terra e vegetazione; e chiunque li guardi si convince della bontà della teoria catastrofista che vuole questi “giganti” abbattuti da un’onda gigantesca proveniente da Nord-Ovest che, intorno al 1175, avrebbe distrutto le torri del Sinis e la Civiltà nuragica.
Ma con l’uso sapiente delle foto, soprattutto se suggestive, si può dimostrare tutto e il contrario di tutto. Si potrebbe, ad esempio, notare come nessuna di esse abbia l’indicazione dell’orientamento e quindi non ci si può rendere conto se effettivamente i nuraghi sono coperti dal lato mare o anche dagli altri lati. Si può anche notare l’accurata scelta dei fotogrammi che, guarda caso, su più di un centinaio di nuraghi mostra solo ed esclusivamente quelli coperti da terra o da vegetazione. Ad esempio, se il fotografo avesse spostato di poco l’obiettivo della macchina fotografica dal nuraghe Sa ‘e Proccus, uno dei suoi preferiti, verso l’area di Zerrei ne avrebbe mostrato un altro che, invece, coperto non è; ancora più in là il fotografo non si sofferma sul nuraghe Straderi che è un po’ coperto, forse perché è evidente che si tratta di sabbia del deserto di Is Arenas e non di fango e, soprattutto, che a un centinaio di metri di distanza svetta ben visibile il nuraghe Tradori, ben noto a chi transita sulla strada statale “occidentale sarda” dirigendosi da Oristano a Santa Caterina. E qui è evidente l’arcano, lo Straderi si trova nella piana ricca di terra e sabbia mentre il Tradori, poco distante, poggia già sul primo gradino del basamento lavico del Montiferru; la differenza di quota non è significativa ma il cambiamento di sedimento si.
In altre parole anche nel Sinis, così come nel resto dell’isola, nella piana ricca di sedimenti (la terra arabile e coltivabile) i nuraghi tendono a essere coperti; appena cambia il sottofondo, quando questo diventa roccioso e diminuisce lo strato di terra, i nuraghi tornano a svettare. Questo lo si vede anche al centro del Sinis, dove è presente un altopiano lavico (su Pranu) i cui nuraghi non sono coperti se non da vegetazione e un po’ di terra portata dal vento. Ma anche nella piana, dove affiora la roccia e quindi diminuisce lo spessore dell’humus, i nuraghi non sono coperti; se, ad esempio, prendete la strada per Tharros, alla fine del rettilineo dove la strada fa una curva ad angolo retto vedrete davanti ai vostri occhi il nuraghe Angio’ Corruda, di cui potete ammirare il paramento non coperto.
Alcuni di questi siti sono stati scavati ma non hanno restituito la minima traccia di “fango” marino e, fatto importante, sono stati indagati scientificamente negli ultimi cinquant’anni da archeologi e geologi diversi per scuola, metodi, mentalità e generazione. Vediamo qualche esempio.
Il villaggio nuragico di Tharros è uno dei cavalli di battaglia della dimostrazione dell’avvenuto tzunami; un bel villaggio posto su un promontorio e abbandonato al punto giusto e, quindi, candidato principe a essere la vittima sacrificale del maremoto. È una situazione eccezionale anche perché il giacimento archeologico è stato successivamente sigillato dal tophet della città fenicia, a partire dalla fine VIII-inizi VII secolo a.C. Peccato che i dati provenienti dallo scavo stratigrafico realizzato trent’anni fa, regolarmente editi in italiano e in inglese in pubblicazioni a carattere internazionale e facilmente reperibili nelle biblioteche, dicano cose diverse. Ci dicono ad esempio che se lo tzunami è avvenuto nel 1175 a.C. (Frau docet) questo villaggio era abbandonato già da circa un secolo, quindi le onde si sarebbero abbattute su dei ruderi; non solo, altre parti del promontorio risultano, invece, abitate anche dopo la fatidica data; quindi, se onda c’è stata è passata senza danni. In realtà non è neanche passata, infatti, lo scavo del villaggio è stato eseguito con metodo stratigrafico e la stratigrafia è stata pubblicata anche con l’analisi sedimentologica, quell’analisi che, cioè, verifica la natura e l’origine dei sedimenti che si depositano col passare del tempo. Ebbene le capanne del villaggio nuragico di Tharros poggiano sul tipico suolo “nuragico” del Sinis, che chi si occupa di archeologia di quella regione conosce bene e sono state ricoperte, dopo l’abbandono, da limi e sabbie eoliche, cioè trasportate dal vento. In altre parole la sedimentologia ci dice che nell’area non vi sono depositi di carattere marino di epoca nuragica o successiva. I depositi marini esistenti in zona sono quelli indicati dagli strati di calcare, sottostanti il villaggio nuragico e appartenenti al mare miocenico, che copriva tutta l’area milioni di anni fa. Inoltre tutti gli studi sedimentologici e pedologici realizzati e regolarmente pubblicati, sull’area di Tharros negli ultimi trent’anni, mostrano come i sedimenti che coprono il terreno e le strutture sono, alternativamente, strati di vita (fenici e romani) e, nei periodi di abbandono, strati di sabbie e limi eolici.
Questo dato può essere riscontrato anche negli altri scavi condotti nel Sinis, mi riferisco ad esempio alla fonte sacra nuragica di Sa Rocca Tunda, collocata quindi all’altra estremità della penisola, databile al Bronzo finale, a epoca, cioè, successiva al maremoto e che, stante l’ipotesi del totale abbandono dopo il disastro, non dovrebbe esistere: eppure c’è; anch’essa poggiava sul suolo marron-brunastro tipico del Sinis ed era coperta da sabbia eolica.
Tornando all’area di Tharros non dovrebbe esistere il pozzo sacro nuragico di Cuccuru is Arrius, il cui scavo e pubblicazione, dimostrano come il Sinis fosse ancora intensamente popolato anche dopo il fatidico 1175 e talmente viva e vivace è la comunità di quella regione che, poco dopo, produrrà quella straordinario complesso di Statue, note con il nome di Monte Pramma; la dimostrazione più chiara di come non ci sia stata alcuna crisi catastrofica né abbandono.
Ma senza voler per forza rifarsi ai dati archeologici, a quei rapporti di scavo che tanto annoiano Frau, basta transitare nel Sinis, magari in un bel giorno di primavera e guardare i tagli stradali nei quali con molta chiarezza e senza bisogno di carotaggi, si possono vedere le successioni di avvenimenti sedimentologici, nessuno di questi è di tipo marino se non, alla base, i calcari miocenici.
Questi sono dati concreti, verificabili, pubblicati, ma anche visibili a occhio nudo. Spero che Frau e i suoi entusiasti sostenitori abbiano voglia di affrontarli, discuterli e, magari, contestarli, ma sempre con fatti e non con insulti come sinora è avvenuto.
Resta anche una curiosità, negli interventi di Frau si parla, in realtà, di due maremoti uno da sud, che avrebbe devastato la pianura del Campidano e sarebbe salito sino a Barumini (238 m sul livello del mare) e l’altro da nord-ovest, che avrebbe devastato il Sinis e il Campidano di Milis (nuraghe s’Urachi). Due fronti di onde gigantesche evidentemente in conflitto tra loro e reciprocamente escludentisi: sarebbe il caso di decidersi, da sud o da nord-ovest?
21 Aprile 2008 alle 22:12
Mi pare che sia Marcel Proust a scrivere che la fede o il mito nascono da esigenze estranee alla ragione e alla scienza e che tali rimangono, estranee alla ragione e alle ragioni della ragione e della scienza. E io allora mi chiedo, a che serve prendere a interlocutore un contaballe come il Sergio Frau e soprattutto i suoi seguaci bisognosi di un grande passato sardo con cui consolarsi?
23 Aprile 2008 alle 15:34
Gentile Sailis
Nel momento in cui una semplice pubblicazione viene fatta propria dalle pubbliche amministrazioni e viene diffusa come l’unica vera analisi scientifica della Sardegna antica, quando ha una esclusiva ed escludente eco nei mass media, dove da anni è presente una vera e propria censura nei confronti di opinioni diverse e dove alle decine di articoli e interviste non viene mai proposto un contraddittorio, allora da pura teoria fantasiosa (oltre che colonialista, come mi è capitato spesso di definirla, e intimidatoria) si trasforma in un fatto pubblico che necessita di una risposta da parte del mondo scientifico. Risposta che non può che essere in termini scientifici, fornendo cioè quei dati che permettano all’opinione pubblica di farsi una proprio quadro.
Se a tutto ciò fa seguito l’invocazione del blocco delle ricerche scientifiche non in linea con la teoria, cui segue il finanziamento (da parte di un Associazione di costruttori) di carotaggi per dimostrare l’esistenza del maremoto e di Atlantide, la risposta, sempre scientifica, è altrettanto necessaria.
Mi incuriosisce, comunque, che quando ogni mese un organo di stampa sardo propone direttamente o tramite intervista l’opinione di Frau, non leggo alcuna lettera che dica che forse bisognerebbe ampliare il discorso; quando, invece, molto raramente qualche archeologo fa sentire la propria voce, immediatamente compaiono lettere di censura o, nel migliore dei casi, di invito a lasciar perdere. Curioso.
Alfonso Stiglitz
23 Aprile 2008 alle 18:31
Ottimi interventi quelli di Perra, Usai e Stiglitz.
Purtroppo è vero che la stampa per vendere viaggia sul sensazionalismo quando non sull’esoterico.
Non so se è il caso di parlare di colonialismo culturale, lo chiamerei piuttosto collonialismo (dal verbo collonare) o pornografia, da profano tra profani ho notato che alla gente piace assai la porno-archeologia.
Visto che gli argomenti non mancano, perché non realizzare un video, da diffondere in rete, dove rappresentare graficamente l’assurdità dei nuraghi sommergibili?
23 Aprile 2008 alle 20:35
Caro Stiglitz, il mio non è un invito a lasciar perdere, ma a tenere conto dell’indifferenza alle ragioni della scienza da parte di una gran parte anche dei nostri contemporanei e conterranei, come sempre è accaduto finora dappertutto. Mi spaventa, per esempio, quel tanto di buona fede che c’è in molti nel rifiuto delle prove e dei ragionamenti scientifici in nome di narrazioni consolatorie al passato. Tenere conto di questo (e di altro) è indispensabile quando ci si rivolge al grande pubblico. perché così si diventa più coscienti della forza di convinzione dell'”avversario” mitopoiteico rispetto alla scarsa forza di persuasione dello specialista. Lo specialista è richiesto e ascoltato da pochi e dà fastidio a molti, mentre il mitopoietico è richiesto ascoltato e creduto da molti. Ecco, cercavo di dire di questa difficoltà, senza nessun invito a lasciar perdere, anzi, ad affinare le armi..