Se di lavoro dobbiamo morire

1 Giugno 2007

Nicola Imbimbo

SICUREZZA SUL LAVOROCon la nascita del capitalismo il lavoro, e con esso la vita, per la prima volta nella storia, diventano una merce da vendere pezzo a pezzo. Si produce in tal modo una mercificazione della persona uno sfruttamento degli uomini il cui scopo principale è valorizzare quel mostro animato che è il capitalismo. Accanto a questa condizione di schiavitù, ineliminabile finché il sistema economico è quello capitalistico, come – in modo tuttora insuperato – Karl Marx ha efficacemente sostenuto, ci sono morti e feriti che quotidianamente ci ricordano che i lavoratori esistono anche a dispetto di una certa cultura che se ne dimentica e parla di fine del proletariato.
Secondo l’Ufficio Internazionale del lavoro (ILO) ogni anno nel mondo 2,2 milioni di persone muoiono per infortuni o malattie da lavoro: 5, 6 mila persone al giorno! Si stimano inoltre in 270 milioni gli incidenti e in 160 milioni i nuovi casi di malattie professionali ogni anno.
La contabilità degli infortuni, mortali e non, in Italia è tenuta dall’INAIL che la presenta in un rapporto annuale molto articolato.
Basta dare uno sguardo all’ultimo rapporto relativo alla Sardegna (ottobre 2006) per scoprire con l’efficace ausilio di un grafico, l’incremento, dal 2002 al 2005, del numero degli infortuni nella nostra regione (da 17.930 a 18.909) mentre il trend nazionale è in diminuzione anche se il loro numero è ancora elevatissimo ( 992.656 – 939.566).
«Verosimilmente – ipotizza la relazione – il fattore che maggiormente influisce su questa controtendenza sarda è la tipologia del tessuto produttivo in prevalenza di piccole e piccolissime imprese».
La morte di Felice Schirru (32 anni!), operaio della Saras di Sarroch, avvenuta recentemente, ha avuto risonanza sulla stampa. I lavoratori delle imprese di subappalto che operano all’interno della raffineria hanno proclamato subito lo sciopero (è una interessante novità) e promosso una colletta per la famiglia dell’operaio morto. L’eco sui media, la mobilitazione degli operai, l’indignazione e il dolore, le iniziative successive dei sindacati hanno sottolineato la gravità dell’incidente e della insicurezza sul lavoro. Niente di paragonabile tuttavia, direbbe il giovane comico Andrea Rivera, a quanto è accaduto in occasione di militari sardi morti in missioni di pace: funerali solenni, lutto cittadino e nessuna necessità di fare sottoscrizioni tra commilitoni compagni di lavoro.
I morti sul lavoro in Sardegna denunciati, precisa opportunamente l’Inail, nel triennio 2003-2005 sono stati ben 107. «Di molti di questi morti – dice Carmelo Farci segretario regionale del sindacato edili della Cgil – al massimo esce un trafiletto sull’Unione Sarda».
In edilizia si verificano oltre la metà degli infortuni del settore industriale. «Il nostro sindacato, la Fillea – Cgil – dice Farci – ha la contabilità online degli infortuni mortali in tempo reale. Ad oggi, fine maggio 2007, le morti bianche (o forse meglio dire gli omicidi bianchi) in edilizia – come puoi vedere sul sito della Fillea – sono 90. Nel 2005 sono state 191 e 258 nel 2006! »
Gli infortuni mortali sono quelli che colpiscono e che indignano di più. Stanno crescendo a tal punto che nel Manifesto del 26 maggio c’è chi parla di una vera e propria strage.
Ma ci sono anche altri infortuni che costituiscono una tragedia per tanti lavoratori e le loro famiglie. A scorrere l’elenco della natura delle lesioni che ordinatamente il rapporto elenca c’è da rabbrividire: contusione, lussazione, fratture, perdita anatomica, lesioni da agenti infettivi, da calore, da corpi estranei, per caduta. Non meno impressionante è l’elenco della sede della lesione: dal cranio agli occhi, dalla faccia al cingolo toracico, dal collo alla colonna vertebrale, dal braccio alle gambe al ginocchio al piede alle dita… E accanto a ciascuno di questi nomi, numeri per lo più a quattro cifre sino ad arrivare in un anno, il 2005, a 11.292 uomini e donne in carne ed ossa… lesionati, feriti sul lavoro e per il lavoro nella sola nostra regione.
C’è poi tutto il campo delle malattie professionali e un lungo elenco delle sostanze che le possono causare: dal nichel al cloro, dal piombo agli idrocarburi e delle malattie conseguenti: quelle cutanee, ai polmoni, malattie alle ossa e alle articolazioni, neoplasie da asbesto (sta per amianto) alle ben note, nella Sardegna già mineraria, silicosi. Un lungo elenco di sostanze e conseguenti malattie solo stando alle cosiddette tabellate. Vi è, inoltre, tutto il capitolo delle non tabellate e le traversie per chi ne è colpito per dimostrare, in maniera specifica ed inequivoca, dice l’Inail, la causa di lavoro nell’insorgere, svilupparsi o aggravarsi della malattia. Sono le malattie, per usare termini che solo i burocrati sono in grado di inventare, multifattoriali e non tabellate.
Quali le cause di tante sofferenze, senza dimenticare – anzi ! – Marx?
Una recente ricerca del Censis rileva che su oltre 4 milioni di aziende italiane che operano sul territorio nazionale, circa il 38 per cento presenta “fenomeni di marcata rischiosità sul lavoro”, particolarmente concentrata nel settore industriale. Il 27,2 per cento delle imprese concentrate prevalentemente nel sud e nelle Isole, operano invece in condizioni di irregolarità diffusa (vedi lavoro nero, precarietà, mancanza di norme) che si riflette in modo diretto sulla sicurezza dei luoghi di lavoro. Solo il restante 35 per cento è costituito da aziende che registrano livelli di rischio meno esasperati. Che fare?
Ci sono dei segnali incoraggianti di un più deciso impegno per contrastare e contenere gli infortuni. Intanto le tematiche sulla sicurezza sono oggi assai più presenti anche nei livelli più alti, nelle istituzioni e nel governo del Paese. C’è stata nel gennaio scorso a Napoli, la conferenza nazionale su salute e sicurezza sul lavoro indetta dal governo Prodi che successivamente ha approvato un disegno di legge per il riassetto normativo e la riforma (testo unico da anni atteso) per la sicurezza sul lavoro. Le parti sociali hanno istituito in Sardegna un coordinamento regionale dei comitati paritetici territoriali. È qualcosa, ma non basta. Occorre una grande campagna di diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro; una efficace e decisa lotta al lavoro sommerso e irregolare e a quello precario, e il potenziamento del ruolo e della tutela degli Rls (rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza) previsti dalla legge. Infine – ed è l’aspetto più decisivo – occorre che le forze politiche di sinistra i movimenti le associazioni facciano divenire centrale nella ridefinizione, ricostruzione, unificazione e rilancio delle forze socialiste e comuniste il lavoro avendo come punto di riferimento e di forza i lavoratori e la loro capacità di protagonismo e di lotta.

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