Pintor e la Sardegna
16 Maggio 2008
Marco Ligas
Ricorre in questi giorni il quinto anniversario della morte di Luigi Pintor. Pubblichiamo l’intervento con cui Marco Ligas lo ha ricordato nel corso della commemorazione organizzata dal gremio dei sardi nella Sala del Cenacolo presso la Camera dei Deputati (19/12/2003).
Non credo di dire una cosa originale affermando che il rapporto di Pintor con la Sardegna è stato un rapporto profondo, seppure caratterizzato da separazioni e assenze. Cagliari è stata la città dei suoi primi 15 anni di vita, anni vissuti molto serenamente, in una libertà senza confini. È vero, poi ci furono il trasferimento nella capitale, i primi lutti, la guerra, la scelta partigiana e comunista: un insieme di avvenimenti che si susseguirono con una rapidità incredibile. Queste vicende segnarono la sua vita, ma il legame con l’isola rimase intenso.
Il suo ritorno a Cagliari non fu certo una sua scelta. Diciamo che la subì, la subì con spirito di disciplina e per il vincolo forte che lo legava al Partito Comunista che non fu altrettanto generoso nei suoi confronti. Anche per questa ragione la sensazione che ebbe al rientro non fu la stessa di 40 anni prima quando, ancora in fasce, approdò nell’isola portato dalle acque in un cesto di vimini. Di quel primo evento – lo ricorda nella Signora Kirchgessner – aveva conservato la percezione del paesaggio di Cagliari, la luce e il suono, l’increspatura del mare sotto il maestrale, il profilo delle torri oltre la foschia. Nel 1966, al suo ritorno, invece gli andrà incontro un frastuono di macchine assiepate sul molo come greggi metalliche.
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Il dissenso e l’astrattezza: un binomio curioso che il partito comunista aveva assunto come carattere specifico della propria storia e della propria cultura. Così non si poteva dissentire senza cadere nell’astrattezza, nell’intellettualismo! Per questa colpa Pintor fu mandato in Sardegna, perché la sua formazione politica diventasse più concreta. Insomma aveva bisogno di un rapporto diretto con la base del suo partito e con la società isolana, e perciò gli venne dato l’incarico di occuparsi dei pastori e dei contadini sardi.
In Sardegna non è mai stato facile orientarsi tra le maglie intricate della rendita fondiaria, delle speculazioni delle aziende casearie, delle condizioni di vita dei contadini che disponevano di piccole proprietà. Per di più nella metà degli anni sessanta l’isola viveva nuovamente una fase di recrudescenza del banditismo che il governo affrontava ancora una volta con misure repressive che alimentavano ulteriormente il malessere della società isolana (Peppino Fiori ha scritto su questi temi pagine puntuali e interessanti). Alcuni dati della realtà pastorale di quegli anni sono ancora oggi eloquenti: il canone d’affitto dei terreni adibiti a pascolo raggiungeva anche il 40-50% del reddito dei pastori (nazionalmente l’affitto delle terre non superava il 20%), il prezzo del latte veniva fissato in anticipo in condizioni di monopolio dai pochi industriali caseari, gli stessi industriali facevano credito agli allevatori attraverso caparre concesse sotto forma di usura, in più l’alea delle condizioni meteorologiche rendeva l’annata lavorativa molto precaria: tutte condizioni che alimentavano le rivolte individuali e il banditismo. Il compito che fu assegnato a Pintor non era dunque agevole, non era facile infatti l’individuazione di una posizione antagonistica univoca. Seppure talvolta a disagio a causa della complessità di questi problemi, Pintor affrontò il suo lavoro con molta disponibilità e con un atteggiamento teso a verificare forme nuove di impegno politico e sociale. In quegli anni si costituì in Sardegna l’ARPAS (l’Associazione regionale dei pastori ). Pur individuando qualche rischio di corporativismo vide in questa associazione uno strumento capace di esercitare un maggiore potere contrattuale delle masse pastorali e contadine nei confronti della grande industria e del mercato e al tempo stesso la possibilità di una valorizzazione delle zone interne e delle risorse della zootecnia. Naturalmente Pintor non era così ingenuo da ritenere che un impegno contro la rendita fondiaria non comportasse, oltre le dichiarazioni di principio che tutti erano disposti a fare e facevano, atteggiamenti coerenti. Troppo spesso in nome dell’autonomia regionale e del piano di rinascita venivano sottoscritte mozioni unitarie inneggianti allo sviluppo dell’isola, ma nulla si faceva perché nella quotidianità i rapporti di produzione precapitalistici venissero aboliti. Consapevole di questo equivoco e che attorno alla rendita c’era una coalizione di interessi parassitari, ben rappresentati a livello politico da settori della democrazia cristiana, Pintor sottolineava l’esigenza di dar vita ad un movimento di pastori e contadini capace di far pesare la propria volontà anche con una mobilitazione e un impegno sociale forti, in antitesi alle forze conservatrici.
C’era in questa scelta l’esigenza di ribadire come la Regione non fosse di per sé uno strumento di democrazia o di progresso sociale. L’impegno della sinistra, del partito comunista, non poteva esaurirsi nella politica contestativa verso il governo centrale e nella rivendicazione di una maggiore autonomia: circoscritto in quella prospettiva l’impegno diventava sterile e ambiguo; era necessario farlo vivere a livello sociale, rivitalizzando un rapporto concreto con le fasce più deboli della popolazione. Più in generale era opportuno – diceva Pintor – ancorarlo alla prospettiva di un cambiamento radicale della società sarda.
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Naturalmente, pur vivendo in Sardegna, i suoi interessi non si esaurirono nelle questioni relative alla vita dei pastori e dei contadini sardi o intorno ai temi dell’autonomia regionale e del piano di rinascita. Pur coinvolto nelle attività dell’isola, continuò ad occuparsi dei temi generali della politica. Molta importanza dava al partito, alla concezione del partito, al modo in cui organizzava le relazioni tra i singoli compagni e tra i vari organismi. Non mancava di sottolineare come la formazione della linea politica avvenisse in modo unidirezionale, dal vertice alla base. Questa procedura – diceva – aveva assunto un carattere endemico, conseguenza della degenerazione del centralismo democratico. Era difficilissimo instaurare tra i diversi organi del partito un rapporto di circolarità, le idee e le posizioni dei compagni che operavano in periferia, se differenti da quelle dei gruppi dirigenti nazionali, trovavano ostacoli insormontabili ad affermarsi. Il suo parlare senza veline, l’informarci del dibattito esistente su scala nazionale, sulle posizioni dei diversi componenti della direzione e della segreteria, furono tutte cose che influirono notevolmente sulla formazione di un vasto gruppo di compagni che furono coinvolti con più passione nel lavoro politico di quegli anni. Si aveva così l’immagine di un partito non più ingessato, ma vivo nella sua dimensione reale. Senza che Pintor avesse intenzione di creare una frazione, si unirono attorno a lui diversi compagni con lo scopo di approfondire i temi ritenuti di maggiore attualità; la prospettiva era quella di riaprire, dopo la sconfitta subita all’XI congresso, un confronto serrato all’interno del partito comunista. Le cose purtroppo non andarono così: il gruppo dirigente del Pci valutò meno pericolosa, ai fini della sua unità, l’esclusione del Manifesto dal partito e così operò per la radiazione.
Voglio sottolineare che intorno agli anni ‘68-‘70 il Pci a Cagliari, nella sezione Lenin, la sezione dei disobbedienti, contava oltre 1300 iscritti, un numero notevolissimo in rappresentanza di diverse categorie di lavoratori. Questa forza si spiegava soprattutto col fatto che la sezione riusciva a promuovere un’attività politica e culturale molto intensa. E Pintor ne era l’animatore. Venivano convocate assemblee a cui partecipavano centinaia di iscritti e, cosa per certi versi nuova, molti intellettuali, simpatizzanti e curiosi. I temi dibattuti coincidevano spesso con gli argomenti affrontati nel comitato centrale del partito: la proposta di dar vita ad un partito unico della classe operaia (avanzata da Amendola), la convocazione di una conferenza internazionale sui rapporti con la Cina e il PCC, le questioni dell’autonomia regionale, il rapporti col sardismo, ecc. Non è un caso che Bufalini, quando il Manifesto fu radiato, dichiarò che Cagliari era una delle quattro città (le altre tre erano Roma, Napoli e Bergamo) nelle quali «il frazionismo e le attività disgregatrici del gruppo del Manifesto avevano attecchito».
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Un altro aspetto su cui Pintor diede un impulso importante al dibattito politico in Sardegna riguardava l’analisi sulla situazione internazionale, in particolare il giudizio sull’Unione Sovietica. Sapeva bene che, col passare del tempo, era andata attenuandosi l’attrazione nei confronti dell’Unione Sovietica. Eppure capiva che c’era una remora nel prendere le distanze dal socialismo reale: permaneva un’ambiguità di fondo – diceva – perché la critica nei confronti dell’Unione Sovietica o dei paesi dell’est si accompagnava sempre a qualche riconoscimento; e laddove risultava difficile individuare qualche aspetto positivo nella politica recente di quei paesi, allora si faceva riferimento al passato e così la critica mai diventava netta sino ad affrontare le cause della crisi. Nessuno nel partito, anche il più contestatario, era abituato a metodi di analisi più radicali. A nessuno di noi, per esempio, era mai capitato di sentire da un dirigente del partito che l’Unione Sovietica, soprattutto dopo l’invasione di Praga, intendeva estendere il suo impero sino all’Adriatico. Questi giudizi ci costrinsero a rivalutazioni su aspetti che consideravamo dei capisaldi: l’URSS non più faro del socialismo ma concorrente degli USA nel controllo del pianeta non era certo un concetto da accettare con leggerezza. E così il dubbio che la funzione propulsiva dell’URSS fosse esaurita non solo trovò conferma ma presto lasciò il posto alla consapevolezza che svolgesse funzioni di dominio nei confronti dei paesi fratelli. Ricordo queste cose per sottolineare la validità di un metodo di ricerca, quello di Pintor, che non può mai portare a conclusioni definitive, immodificabili nel tempo senza sottoporle a verifiche costanti.
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Voglio fare ancora una considerazione su quello che viene definito il suo pessimismo. Non so se la sardità può aiutarci nell’interpretazione. Credo che Pintor nel sostenere le sue idee fosse consapevole delle difficoltà di cambiare il mondo e le esplicitava, a volte in modo ridondante. Questa consapevolezza spesso induceva anche i suoi amici a dire che nel suo modo di vedere la realtà fosse presente una tragicità della vita. Sicuramente Pintor non era un ottimista. Ma chi sottolinea questo aspetto del suo carattere ritengo che sottovaluti altri elementi. Uno riguarda la forza delle sue scelte ideali e la passione con cui le difendeva anche nei momenti più delicati della vita politica e personale, il suo puntare alto. A Pintor non sfuggiva certamente il divario tra l’impegno per una società di persone libere e la possibilità che questo obiettivo si realizzasse: anzi col passare del tempo vedeva accentuarsi questa frattura e allontanarsi gli orizzonti di una società che mettesse al bando la sopraffazione e lo sfruttamento. Un altro elemento si riscontra nella scelta militante da lui operata di stare comunque in campo, anche nei periodi più difficili, quando aveva l’impressione che stessero per chiudersi tutti i varchi per una crescita della democrazia. Forse nel suo modo di affrontare la vita c’era un po’ di sardità che talvolta viene assimilata al pessimismo. A sostegno della mia ipotesi cito la premessa che troviamo ne ‘La signora Kirchgessner’: Si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanza, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo.
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Concludo dicendo che il ritorno nell’isola, seppure originato da un atto punitivo, gli fece riscoprire il rapporto con la città dell’infanzia e dell’adolescenza. E fu come ritrovare radici antiche ed entrare in rapporto con la memoria e con un mondo di favola, quello che da ragazzo gli consentiva di fare lunghe scorribande in una città senza confini e col mare sempre a disposizione. La riscoperta di Cagliari gli darà sensazioni fortissime e ogni volta che rivisitava la città si poteva cogliere in lui l’emozione per un rapporto o un ricordo ritrovati.
Chi ha conosciuto Pintor ha potuto notare come con lui venisse meno la separatezza tra il rapporto politico e quello personale; la condivisione di relazioni tra le persone per lui significava mantenere contigue le due sfere sino ad intrecciarle: e proprio su queste basi in città ha sviluppato e mantenuto rapporti di amicizia che si sono protratti nel tempo. Questo aspetto del suo comportamento è stato accolto, sin dal suo arrivo in Sardegna, con estrema simpatia da tutti i compagni che poi lo seguiranno nell’esperienza del manifesto. E’ nel corso di questi rapporti che emerge il ruolo di Pintor animatore, punto di riferimento, persona dagli interessi molteplici e al tempo stesso capace di stimolare mille curiosità. Credo che sia il messaggio migliore che lascia a tutti, ma soprattutto alle giovani generazioni, perché difendano con convinzione le scelte ideali fatte e accentuino l’impegno per realizzarle.
19 Maggio 2008 alle 22:52
Ciao, si prova ancora commozione pensando a Luigi, nonostante gli anni che sembrano molti di più da quando ha smesso di scrivere, il suo ricordo, o meglio il bisogno della sua parola è incommensurabile.
Poi, a fronte della cecità degli “intellettuali” di oggi sentirsi orfani è dir poco….
Peccato che anche all’interno del suo giornale venga poco ricordato..
Francesco