Un’altra città è possibile?

16 Maggio 2008

CASTELLO DI SASSARI
Marcello Madau

Le questioni sollevate dal ritrovamento dei ruderi del castello medievale di Sassari e il vasto dibattito che si è aperto permettono almeno qualche osservazione sul concetto di città e sul rapporto fra i cittadini e i grandi temi della tutela e della fruizione. In sintesi il ritrovamento: durante i lavori di sistemazione della centrale Piazza Castello sono emersi i lacerti murari, consistenti e di rilevante interesse, del trecentesco castello aragonese, ingloriosamente abbattuto nel 1877 sotto la spinta delle esigenze espansive della nascente borghesia sassarese, mirate a nuovi spazi edificatori e di rappresentanza e tradottesi in pochi decenni nella eliminazione radicale – fenomeno comune nell’Ottocento per i contesti medievali in Europa – di gran parte della città murata e di antichi ma ‘ingombranti’ edifici. Sarà la fine del circuito murario turrito, della Chiesa di S. Caterina e, per l’appunto, del caratteristico castello, noto da rilievi, foto e persino tempere di epoca Iiberty che adornano le volte di edifici signorili della città.
Il prezioso rinvenimento, grazie a Sandro Roggio, di una mappa di fine Settecento con un dettagliato disegno dà una nuova messe di informazioni su un edificio che sembra destinato a riservare non poche sorprese. Si riapre la questione di un precedente castello, o comunque di una struttura sulla quale potè sovrapporsi la redazione trecentesca, sviluppatasi fra il 1327 e il 1342. Non si può persino escludere la possibilità che il castrum ricordato dal Re Enzo nel Duecento potesse risalire ad una fase alta dello stesso medioevo.
La vista dei muri, bugnati, sotto traccia fra cavi telefonici, ristoranti e giardinetti fa impressione, ma il fenomeno della distruzione e dell’adattamento di un contesto edilizio da un’epoca ad un’altra è ben noto nella storia dei siti e dei monumenti. Ovviamente è l’archeologia a renderlo esplicito: in Sardegna guardate ad esempio Tharros, con gli ambienti romani sorti sulle macerie – si riutilizzarono per fondazioni decine di stele figurate – della città punica, o con gli spazi fenici impostati su precedenti aree nuragiche; o Monte Sirai, sia nel nuraghe che nella fortezza. Se vogliamo uno spettacolare esempio non sardo, penso alle case costruite sopra le strutture avvolgenti del teatro di Marcello.
In età moderna si giunge, dalle rovine romane raffigurate dal Piranesi, all’esigenza della conservazione di singole unità – sradicati, ovviamente i contesti – come fuochi prospettici di pregio, a Parigi come a Roma o ad Arles. In parallelo si forma una concezione museale, pur corredata da apparati sinottici sempre più evoluti, impostata su eventi, reperti o epoche particolari.
Oggi è auspicabile l’evoluzione verso un’altra città: il superamento dell’attenzione alla singola (soprattutto se ‘di pregio’) unità monumentale a favore del contesto, coerente o pluristratificato, se affermato da qualche decennio nella stessa concezione della tutela, può incontrarsi con una nuova programmazione della città non solo vincolistica: talvolta affermata ed assai poco praticata se non in qualche importante, e non prevalente, episodio. Intanto, che fare a Sassari di questo ospite medievale che modifica di fatto le precedenti priorità dei ‘lavori pubblici’? Dopo alcune polemiche e molte discussioni istituzionali, l’Amministrazione sassarese, con la posizione del sindaco Ganau, ha promesso il massimo impegno per il pieno recupero e valorizzazione del monumento. Fatto assai positivo, purchè si colga che il problema non è il castello in sé, nè solo turistico, ma la costruzione di un progetto urbanistico che viva in profondità e non solo in superficie (contemporanea: asfalto, marciapiedi, pavimentazioni dell’oggi); dove l’identità non sia operazione selettiva, ma progettualità urbana che espliciti ove possibile, fisicamente, tangibilmente, tutti i passaggi formativi. Questo, va da sé, non riguarda solo Sassari. In Sardegna, con diverse misure, molte città o forse tutte: Alghero, Olbia, Oristano, Porto Torres, Nuoro, Bosa, Posada, Iglesias, Macomer sono casi interessanti, per fare alcuni esempi. Soprattutto, da ultimo, Cagliari, con la questione Tuvixeddu, l’Anfiteatro romano, Santa Igia e molti degli interventi urbanistici (soprattutto quelli ‘sotterranei) previsti.
Sarebbe quindi auspicabile, e questo tema e passaggio mi appare centrale, progettare città che ospitino e formino cittadini storicamente consapevoli attraverso la percezione fisicamente esplicita della memoria. L’obiettivo pretende alcuni passaggi essenziali: intanto l’abbandono, nella politica della città, di una concezione puramente difensiva dei monumenti, concepiti solo dal punto di vista della tutela, prevalentemente a posteriori, e non come componente attiva. Lo dimostra proprio il caso di Sassari, dove il pozzo di Rena e il Castello, noti con estrema precisione da fonti d’archivio, disegni e persino scavi degli anni ’60 (col ritrovamento di lunghi corridoi e volte integre), irrompono improvvisamente a disturbare ‘i lavori pubblici’, come altro da sé. (‘Abbiamo sostenuto anche gli oneri dei lavori di sospensione per salvare i monumenti e modificare il progetto dei parcheggi’ e ‘ridurremo l’entità degli interventi per evitare danni al patrimonio archeologico e dare meno diagi ai cittadini’ , ha aggiunto un paio di mesi fa un assessore a proposito dei pozzi antichi emersi all’Emiciclo Garibaldi e del Castello. Se avesse letto, o qualcuno glie ne avesse semplicemente parlato, qualche riga e disegno di Enrico Costa, le modifiche progettuali sarebbero state previste prima).
In secondo luogo, la disponibilità in anticipo di mappature archeologiche urbane tridimensionali e di opportune e ben fatte indagini preventive permetterebbe una più efficiente programmazione/previsione dell’opera urbana.
Ma una terza, e più essenziale osservazione, si impone: la natura della città da costruire appare una vera e propria scelta di valori, valori superficiali se non prevedono l’urbanizzazione della memoria e restano perciò sugli orizzontamenti attuali, oppure valori ‘profondi’, propri di una città che non si limiti a ricostruire in qualche plastico museale o urbano (generalmente su cartello a due pali o in plexiglass) il passato, ma contempli la profondità nella sua stessa trama e nelle sue quote. Nel primo caso vi è la prevalenza dei cosiddetti ‘lavori pubblici’, la loro separazione dalla storia, il ruolo di quest’ultima come incidente di percorso.
Nel secondo caso, la costruzione della città non mette la storia solo sullo sfondo, ma, cercando di contemperare i suoi segni con le esigenze della contemporaneità, ne riconosce il valore primario che può irrompere nella quotidianità dei nostri passi. Ciò suggerisce una progettazione urbanisitica multidisciplinare, con il ruolo centrale di tutte le ‘professioni’ dei beni culturali a partire da quella dell’archeologo, ancora trascurata dalle ultimissime riforme del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
L’obiettivo generale appare quindi quello di fare della città un processo sostenibile dal punto di vista ambientale ed un’organizzazione creativa e partecipata dello spazio urbano.
Due considerazioni a questo proposito: l’eliminazione o almeno il forte contenimento del traffico urbano nel centro storico e nelle zone ad alta densità monumentale non è solo un problema di tutela di aree monumentali aggredite da smog e vibrazioni, quanto soprattutto di relazione fra contesti e fruizione, che si esalta nella dimensione pedonale.
Infine, l’organizzazione e la lettura dell’ambiente urbano: si tratterebbe di avviare ovunque laboratori permanenti e condivisi dove lo stesso viaggio nelle città (le città delle varie epoche che ‘riposano’, non viste o negate, nelle viscere di quella contemporanea) sia una dimensione di progettazione e realizzazione continua, e l’informazione non sia solo di tipo ‘classico’: uno o più pannelli, corrette spiegazioni plurilingue, brochure e guide sono logiche museali che, da sole, consegnerebbero in maniera analoga al sistema museale tradizionale, le città della storia alla separazione da noi contemporanei. Dovremo pensare ad un processo più caldo, all’irruzione dell’arte e dell’architettura contemporanea in relazione ai monumenti, vera garanzia per una partecipazione attiva e non ‘caritatevole’ verso il passato, riconosciuto come elemento continuo della formazione di presente e futuro.

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