Cinema e follia
1 Novembre 2010Antonello Zanda
Difficile raccontare in pochi film il rapporto tra cinema e malattia mentale, anche perché la relazione è originaria, come hanno scritto i fratelli Gabbard nel volume “Psichiatria e cinema” (1999). La rassegna “Lo schermo dell’inconscio”, che si sta svolgendo presso la Cineteca sarda di Cagliari, propone un percorso intorno al rapporto ricco e problematico che il cinema ha stabilito con le discipline che studiano la psiche umana. Un rapporto che nasce dalle origini di entrambi i mondi, perché nel luglio del 1895 nasceva la psicoanalisi (cioè Freud iniziava il processo di autoanalisi che avviò la nascita della sua disciplina) e nel dicembre del 1895 nasceva il cinematografo (cioè i fratelli Lumiere organizzavano la prima proiezione pubblica di film). Nella storia del cinema ci imbattiamo per la prima volta in una storia di malattie mentali nel 1916 con La dama di picche di Protanazov e tre anni dopo nel classico e celeberrimo film di Robert Wiene Il gabinetto del dottor Caligari, che ha aperto la rassegna. La figura dello psicanalista lo vediamo invece per la prima volta nel cinema americano e da allora è stato protagonista di tantissime storie che attraversano tutti i generi, dal noir alla commedia, dal thriller al melodramma. La rassegna cerca di tracciare – grazie anche alla visione di film che sono considerati dei classici dell’argomento – un itinerario sintetico, ma significativo dentro le mille ramificazioni che il rapporto cinema/psiche ha costruito in quest’ultimo secolo. Impossibile quindi evitare le esclusioni. Non è irrilevante poi che sono numerosissime le pellicole in cui si riconoscono le nevrosi del mondo contemporaneo, compresi quei film che non esplicitamente hanno l’intenzione di analizzare problemi di natura psicanalitica, ma il cui sviluppo narrativo si presta ad uno sguardo che pensa con gli strumenti dell’universo psicologico. Perché l’immagine in quanto tale rimanda sempre al mondo interiore degli uomini. Sigmund Freud, nell’Interpretazione dei sogni, aveva riconosciuto un nesso strettissimo tra l’inconscio e l’immagine. L’inconscio è una sorta di cavità teatrale, uno schermo su cui giocano i loro ruoli le immagini e i simboli. Non a caso Freud, nella sua analisi dei complessi parla di miti, per es. il mito di Edipo, che hanno una forte configurazione iconica. Per gli indagatori della psiche l’immagine affonda nel profondo dell’inconscio con una immediatezza che manca alla parola. Come per l’inconscio, nella sala cinematografica c’è il buio e c’è il vuoto. E come diceva il sociologo Sorlin, c’è questo vuoto e questa attesa iniziale prima che inizi il film che rimanda subito all’intreccio vivo e incandescente fra cinema e psicoanalisi. Anche Cesare Musatti aveva sottolineato che l’inconscio ha con il cinema una comunicazione diretta, perché respira emotivamente di fronte alle immagini dello schermo, in parte perché le immagini ripresentano fantasie inconsce; ma anche per le dinamiche dell’identificazione e della proiezione tra spettatore e personaggi. Analisti, terapeuti o spettatori davanti allo schermo si ritrovano sintetizzati in un’esperienza che va al di là degli accadimenti psicologici in forma di storia che il film ci mostra. Se è vero come diceva Arnheim che “pensare esige immagini e le immagini contengono pensiero”, questa esperienza del cinema è qualcosa che ha a che fare con il nostro modo di vivere e di stare nel mondo. Il disagio mentale è rappresentato nelle sue forme personalizzate da un immaginario complesso e articolato. Un discorso a parte meriterebbe il manicomio e la rappresentazione degli ospedali psichiatrici al cinema. Il recente film di Ascanio Celestini, “La pecora nera”, ha riportato indietro nel tempo il nostro sguardo, prima della legge Basaglia. L’ospedale psichiatrico è stato un luogo di sofferenza, di tortura, di punizione del malato: un luogo in cui è stata cancellata al sua umantà, la sua appartenenza al mondo degli esseri umani. Difficile pensare di tornare indietro rispetto all’idea che chiudere un manicomio sia non un fatto conclusivo e decisivo, ma solo un primo passo di un percorso di ricognizione in un mondo di sofferenza che la scienza psichiatrica ha pensato di risolvere eliminando il bambino insieme all’acqua sporca. Un percorso di approfondimento sulla legge Basaglia e sullo stato delle cose merita un percorso cinematografico definito diversamente, anche a causa della materia incandescente nel clima di restaurazione politico-culturale che stiamo vivendo e che anche nell’ambiente degli operatori si respira. La rassegna consente di farsi un’idea di come la malattia è stata guardata e inquadrata. Lo sguardo cinematografico è stato interpete di un modo di sentire diffuso, ha registrato e rappresentato luoghi comuni, incompetenze e mediocrità, ma ha anche posto problemi, sottolineato difficoltà, rappresentato il bisogno di aprire uan finestra su un mondo che è sempre stato tenuto chiuso. La stessa immagine era sottoposta a un regime di reclusione e di isolamento culturale al fine di tranquillizzare il senso di colpa della società del benessere e della tecnica. Non bisogna mai dimenticare che cosa Basaglia aveva mostrato degli interni manicomiali e che dietro quella miseria umana si nascondeva la natura miserabile della società liberale e capitalista. Scriveva Basaglia: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la ‘follia´ in ‘malattia´ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle´ per trasformarsi in ‘malato´. Diventa razionale in quanto malato”. questo passaggio il cinema lo mostra in modo inequivocabile