La conquista dell’indipendenza

1 Novembre 2010

onnis

Omar Onnis*

Ospitiamo volentieri il contributo di Omar Onnis (IRS) al dibattito in corso (vedi in particolare nel numero 83 gli articoli di Marco Ligas, ‘Quale statuto’, e Marcello Madau, ‘Separatezza’) (Red).

La questione della conquista dell’indipendenza da parte della Sardegna di solito non viene connessa alla possibile risoluzione dei problemi concreti della nostra esistenza storica. Tuttavia, anche solo prendendo per buone le posizioni meno fumose e strumentali emerse sin qui nel dibattito politico, risulta evidente come la crisi di tutti i settori economici e sociali sardi e la carenza crescente di beni collettivi devono essere collegate all’assenza di un senso di appartenenza e identificazione comune e alla sua inevitabile traduzione politico-istituzionale. La questione dei rapporti politici tra Sardegna e centri di potere che ne condizionano concretamente i fattori economici, sociali e culturali è ineludibile. La liberazione in termini di indipendenza politica della Sardegna non può non comportare, alle condizioni storiche date, anche la liberazione da quei vincoli e condizionamenti strutturali, che la subalternità a un ordinamento giuridico altro, rappresentativo di interessi alieni, si porta appresso. La classe dominante, in Sardegna, è costituita in larghissima parte da rappresentanti locali di centri di potere che non hanno sull’Isola se non la sede di propri interessi speculativi. Storicamente vale ancora oggi quello che valeva molti decenni fa, per non dire secoli: chi guida e regge le sorti dei sardi non ha i sardi e la Sardegna come soggetto di riferimento. Non è un problema contingente. L’elezione di Ugo Cappellacci a presidente della regione è la conferma, non la smentita, di tale fenomeno politico e culturale. La stessa autonomia regionale, così come è stata concepita e realizzata, è semplicemente la veste contemporanea di un rapporto di sudditanza dalle radici lontane, rivestito di orgoglio posticcio, di un nazionalismo minorato. Bisognerebbe cominciare a chiedersi come mai la Sardegna viva praticamente da sempre (se si prende il metro della vita umana e non della storia) in uno stato di crisi. Le rivendicazioni che la classe sindacale e politica autonomista porta avanti in questi stessi giorni sono le stesse di venti, trenta e quaranta anni fa. Solo un caso? Privare un popolo della propria storia, della propria forza collettiva e insieme delle sue risorse materiali è uno strumento efficacissimo per tenerlo sotto controllo. Con la sua stessa approvazione. “Come faremmo senza l’Italia?” è la domanda che spesso ci viene rivolta. “Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso”, diceva però Eleanor Roosevelt. Possiamo trovare migliore conferma storica di noi stessi, a questa massima? Sarebbe fin troppo facile dimostrare come la Sardegna avrebbe già oggi tutte e potenzialità per sostenere un proprio ordinamento giuridico sovrano. A parte gli studi accademici, basterebbe fare un po’ di conti con i dati che abbiamo sotto il naso. Il timore dell’indipendenza politica è più culturale e psicologico, che basato su riscontri economici seri. La stessa pretesa che indipendenza significhi solitudine e isolamento si scontra con la evidenza storica di una terra che isolata e solitaria non è stata mai. È vero invece che spesso ha dovuto subire i processi, in cui era pure immersa, senza parteciparvi attivamente. Non sempre, però. E di quali interdipendenze (termine diventato di moda) si può parlare se non si accetta di essere un soggetto attivo della propria storia? Noi non possiamo essere interdipendenti senza essere indipendenti. È quasi una tautologia. Un progetto di sovranità deve necessariamente saldarsi, dunque, con ogni tentativo onesto e lungimirante di emancipazione sociale. Al centro dell’azione politica bisogna richiamare quella congerie di gruppi sociali ricattati e disorientati che oggi formano la nostra classe produttiva (sia in termini materiali sia immateriali). Il conflitto di classe, benché apparentemente mutato se non scomparso, è in realtà inevitabile, dato il contesto storico in cui ancora viviamo. Così come la logica del capitale. La questione è come inquadrarli in una visione più complessa e integrata, rendendoli un elemento di dinamismo, anziché strumenti di dominio e fonti di subalternità. Compito della politica, questo. Margaret Thatcher sosteneva che la società non esiste: esistono gli individui e al massimo le famiglie. Questa visione, oggi dominante, è ciò che bisogna falsificare. Le lotte corporative, le rivendicazioni lacrimose rivolte al padrone sono ininfluenti a livello strutturale. Il contrasto delle mire parassitarie sulla nostra terra e sulla nostra gente è invece strettamente collegato a una nuova consapevolezza collettiva (che possiamo serenamente chiamare nazionale) e alla sua proiezione politica. Il tutto inserito in una visione più ampia, rivolta al mondo, senza particolarismi né di natura sociale, né di natura etnica o nazionalista (strumenti privilegiati della conservazione). L’onere della prova circa le ragioni di un progetto indipendentista partecipativo ed emancipativo oggi deve essere invertito. Questo, le componenti progressiste della nostra collettività, quelle intellettualmente libere, sia in campo politico, sia in campo artistico, letterario, professionale, così come le forze del lavoro, devono cominciare a comprenderlo e farlo proprio. Il rischio altrimenti è di restare ancora, forse definitivamente, la periferia debole e marginale di un impero in disfacimento. Di arrivare tragicamente impreparati alla sfida che la crisi sistemica contemproanea, una vera transizione di civiltà, ci sta già presentando.

*(coordinatore iRS Disterru – Esecutivo Nazionale iRS)

7 Commenti a “La conquista dell’indipendenza”

  1. Fausto Todde scrive:

    Ho letto con attenzione questo intervento di Onnis, che per altro ho trovato molto articolato e di difficile comprensione per un pubblico “popolare”. Detto questo volevo intervenire riguardo alla domanda che Onnis pone quando dice: “E di quale interdipendenza si può parlare se non si accetta di essere un soggetto attivo della propia storia? Noi non possiamo essere interdipendenti senza essere indipendenti”. Penso che su questo siamo tutti d’accordo, tuttavia avrei da obiettare che si può essere indipendenti anche senza indipendentismo. Mi spiego meglio: la “Valle d’Aosta” ( dove vivo da una vita), così come le provv. autonome di Trento e Bolzano non hanno bisogno dell’indipendentismo per sentirsi indipendenti, l’indipendenza l’hanno ottenuta pretendendo dallo stato i giusti riconoscimenti. La domanda allora è: perche la Sardegna non riesce ad ottenere questi riconoscimenti? Alla classe politica sarda interessano più gli interessi dei Sardi o piuttosto i loro giocchini di potere? E perchè quando la Sardegna ha avuto un presidente che ha rivendicato i diritti dei sardi (sto parlando di Soru), le numerose lobby, sopratutto quelle affaristiche e politiche, si sono spese oltremodo pur di chiudere questa “sciagurata parentesi”? l’indipendentismo é una strada lunga da percorrere e non è detto che risolva i problemi elencati da Onnis, sopratutto vedendo il desolante spettacolo che giornalmente dà di sèl’attuale classe politica che ci governa.

  2. Omar Onnis scrive:

    Mi scuso per l’eccessiva densità del testo, che ne rende meno “popolare” la fruizione: i limiti redazionali (sacrosanti) impongono la sintesi.
    Fausto, non farei paragoni tra grandezze incommensurabili: Sud-Tirolo, Trentino e Val d’Aosta sono regioni molto diverse dalla Sardegna, in termini storici, geografici e demografici. Inoltre, non avrebbero alcun interesse a perseguire una piena indipendenza (il Sud-Tirolo caso mai ne avrebbe a riunirsi al Tirolo austriaco, ma non ne trarrebbe alcun vantaggio). Ma la Sardegna – in una accezione contemporanea, non ottocentesca, di nazione e di sovranità – ha tutte le caratteristiche per essere uno stato a sé. E a questo esito spinge una necessità storica (in senso gramsciano) a mio avviso evidente.
    Piuttosto bisogna sottolineare il grave ritardo e le incrostazioni dogmatiche con cui la sinistra in Sardegna si sta approcciando alla questione.
    Soru poi non è stato altro che la massima espressione di una politica che in altri tempi si sarebbe chiamata “borghese”, comunque autonomista. Solo, onesta e in qualche misura lungimirante. Conclusa nel momento in cui lui è entrato nel PD: grandissimo errore politico e causa prima del suo fallimento.
    Il miglioramento delle condizioni di vita dei sardi non può prescindere dalla prospettiva indipendentista: sono fattori strutturali a imporlo, non visioni ideologiche o aspirazioni romantiche.
    Ma questo è solo un contributo al dibattito, non una verità rivelata. È necessario parlarne.

  3. Stefano Deliperi scrive:

    penso che espressioni come “Il miglioramento delle condizioni di vita dei sardi non può prescindere dalla prospettiva indipendentista: sono fattori strutturali a imporlo, non visioni ideologiche o aspirazioni romantiche” siano quanto di più fuori dal mondo. E dalla Sardegna.
    E chi l’ha detto? Quale “bibbia”? Una classe politica, specchio della società, nemmeno in grado di applicare correttamente le competenze dello statuto speciale sarebbe in grado – in base a chissà quale alchimìa o miracolo – di gestire l’indipendenza. Una propria economia, un proprio ordinamento giuridico, una propria difesa, un proprio “stato sociale”.
    Sarebbe come volersi iscrivere all’università non avendo superato le scuole elementari.
    Per carità o po caridadi, come preferite…

  4. Omar Onnis scrive:

    Chi ha detto che a gestire il passaggio a un ordinamento giuridico indipendente e a maggior ragione e guidare la Sardegna dopo tale fase debba essere l’attuale classe politica? La classe politica sarda attuale non è nemmeno una classe dirigente. È una sorta di classe dominante per conto terzi.

    Non è questione di bibbia. È questione di dati. Economici, sociali, culturali e storici. Vogliamo cominciare a farci i conti, o aspettiamo che il federalismo fiscale leghista o la non improbabile dissoluzione dell’Italia come stato ci riducano a una condizione ancora più infima di povertà e marginalità?

    Le prese di posizione ideologiche non possono avere più alcun peso. Le tesi vanno dimostrate. Sostenere che la Sardegna possa emanciparsi (in ogni senso, a partire da quello sociale ed economico) rimanendo una regione dell’Italia, mi pare piuttosto arduo da argomentare. Ma che almeno ci si provi.
    Grazie.

  5. Michele Podda scrive:

    La classe dominante è fatta di individui e TUTTI gli individui sono potenziali speculatori, e all’occasione ladri. Per questo la comunità si deve dotare di norme che limitino la possibilità per gruppi di individui di poter portare avanti i propri interessi al di sopra e sopratutto a danno degli altri cittadini, in questo caso dei sardi.
    L’indipendenza dell’isola reciderebbe quei legami di potere con l’esterno e indebolirebbe notevolmente la capacità di nuocere di coloro che guidano e reggono le sorti dei sardi. Il che significa maggiore democrazia, controllo, coinvolgimento, trasparenza.
    Tali considerazioni si addicono alla classe dominante, e dunque anche a quella politica che ne è parte, qualunque essa sia. Non solo Cappellacci, ma anche Soru, in diversa misura e in altro modo, potrebbe aver seguito interessi che non erano precisamente quelli dei sardi (questione trita).
    Forse Onnis potrebbe cominciare a scendere nel dettaglio, sviluppare concretamente il ragionamento alla luce di dati reali, fatti precisi, nomi e cognomi, senza dare nulla per scontato. In tal modo potrebbe prendere due piccioni: la più facile comprensione da parte del pubblico “popolare” e la caduta dei pregiudizi da parte di chi considera la prospettiva indipendentista “fuori dal mondo”.

  6. Stefano Deliperi scrive:

    “Sostenere che la Sardegna possa emanciparsi (in ogni senso, a partire da quello sociale ed economico) rimanendo una regione dell’Italia, mi pare piuttosto arduo da argomentare.” Mi pare che il discorso debba esser rovesciato: sostenere che la Sardegna possa crescere sul piano economico-sociale e dare efficaci risposte ai suoi abitanti solo con l’indipendenza mi pare piuttosto difficile da sostenere. Quali sono gli argomenti a sostegno e risolutivi? Dove sta scritto che l’attuale classe politica sparirà in casi di indipendenza e lascera spazio a queste mitiche “forze sane” dell’Isola, che oggi se ne guardano bene dall’uscire fuori allo scoperto?
    Ma basta con ‘ste favole!
    La classe politica attuale (e quella degli ultimi 50 anni) è fedele specchio della società sarda e non c’è un segnale che sia uno che indichi un cambiamento miracoloso.
    Perchè non cercate di capire, voi indipendentisti, per quali motivi l’iniezione di ben 1.946 milioni di euro in pochi anni (P.O.R. Sardegna 2000-2006), gestiti esclusivamente da sardi per la Sardegna, non hanno prodotto un decente miglioramento delle condizioni economico-sociali dell’Isola?
    E non tirate fuori la solita corbelleria della “subalternità” con pretese “sudditanze italiane”, please.

  7. Emancipazione politica come emancipazione sociale ~ SardegnaMondo scrive:

    […] numero 85 del Manifesto sardo c’è un mio intervento, che qui […]

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