Politicamente scorretto
30 Novembre 2010Alfonso Stglitz
Permettetemi di essere un po’ scorretto politicamente, ma non amo molto le ipocrisie e i paternalismi, ancor meno quando sono rivolti a delle categorie come quella dei giovani. Mi riferisco al dibattito che si è sviluppato in sala e poi sul web a seguito dell’intervento di un giovane durante la serata in sostegno del Manifesto, svoltasi lunedì 15 novembre scorso. Nel dibattito ha preso la parola un GIOVANE, tutto maiuscolo perché così si è presentato, senza un nome per non parlare di un cognome, quest’ultimo di utilizzo ormai in via di estinzione in pura logica televisivo-berlusconiana, visto che per tutto il dibattito praticamente nessuno si è svelato per la sua appartenenza familiare. L’intervento del GIOVANE è stato duro affermando che il Manifesto può anche morire perché non dice niente ai giovani e che neanche noi, vista l’età media dei partecipanti, abbiamo qualcosa per loro. La prima reazione viscerale che si è scatenata nella mia mente è stata dura, stile “ma ti pozzu toccai?” per poi trasformarsi, quando ha accennato alle nostre diverse aspettative di vita, in un “immoi ti toccu”. Poi mi sono ricordato di essere una persona pacata e, da buon oristanese, di non partire mai di testa (de conca, alla sarda); ma soprattutto di essere un provocatore di natura e come tale capace di non reagire agli sberleffi altrui. Ho riflettuto sul tono e sui contenuti dell’intervento cercando di capire e di analizzare (come ha osato dire Valentino Parlato), altra parola questa che nella logica televisivo-berlusconiana è diventata sinonimo di insulto; What is analizzare? E questo lo dico a beneficio di una persona intelligente (oltre che brava e moderatamente giovane) come Vito Biolchini che si è scandalizzato della riesumazione di questo sovversivo vezzo analitico. Bene, l’analisi da me fatta nell’immediato del dibattito e poi la mattina dopo in attesa del solito treno, privo purtroppo di un comodo lettino psicoanalitico, mi ha portato a un malefico sconforto, per la sensazione di un giai biu (deja vu per gli esterofili), di una rivisitazione di qualcosa che pensavo fosse archeologia (deformazione del mestiere). Negli anni settanta quando, giovane appena arrivato in città mi affacciavo e, poi, partecipavo alle innumerevoli assemblee di quel periodo turbolento, assistevo a dibattiti molto simili, nei quali inesorabilmente parlavano categorie e non persone in carne e ossa. Si alzava lo STUDENTE, con i capelli lunghi e arruffati, barba un po’ incolta e vestito da studente e iniziava una vigorosa filippica tipo quella di lunedì. Poi si alzava l’OPERAIO, anch’egli vestito d’ordinanza, mediamente la tuta, anche se magari non era giornata di lavoro, ma come sappiamo l’abito fa il monaco, eccome. Infine, immancabile, la DONNA vestita da donna del movimento, simil indiano-latinomericano e via discorrendo. Per non farla lunga, si parlava da categorie, non da persone con nome e cognome portatori di bisogni concreti; con i nostri grandi di allora, politicamente più scafati di noi, che applaudivano. Fu poi dirompente, certo, quando una delle categorie, quella della DONNE, ruppe finalmente lo schema e ridiventammo donne, giovani, operai; ma non si è perso il vezzo. Che un giovane mi parli da GIOVANE non mi dice niente, non porta qualcosa di nuovo, di discussione della realtà. Non a caso, oggi, a ridurre l’aspettativa di vita sociale dei giovani attuali sia un ministro GIOVANE e pure DONNA. E il Manifesto è, nel suo piccolo e da prima delle clamorose proteste, il giornale che più si è impegnato sul tema delle riforme scolastiche e del precariato. Mi sarei aspettato un discorso più duro ma legato a una visione ecologica del futuro: parlare di aspettativa di vita in termini maltusiani (sono più giovane e vivrò più di te: ma ndi ses seguru?) è espressione della visione mercantilistica della vita, di cui oggi i media si riempiono la bocca, una visione pillesca (da PIL) che risulta particolarmente deprimente in bocca a qualcuno in lotta per modificare l’esistente. Parlando ecologicamente potrei rispondere che la mia (nostra) aspettativa di vita non dipende dall’età fisica, ma dal tessuto di rapporti personali e sociali che abbiamo o che riusciamo a costruirci; ad esempio, ho una figlia di ventidue anni e tre nipoti, la più grande delle quali ha due anni, il che significa che la mia aspettativa di vita in senso non mercantile è decisamente più lunga, oggi, di quella di un giovane precario (quando va bene) e senza futuro percepibile. Quando mia nipote fra cinquantacinque anni avrà l’età che io ho adesso, i giovani attuali saranno già vecchi e probabilmente senza l’ancoraggio di un reddito e con quali aspettative di vita, se oggi ci ancoriamo a una visione maltusiana della stessa? In sostanza mi sarei aspettato dal GIOVANE, ridiventato giovane, un attacco più dirompente rispetto non ai vecchi (e ai giovani, che ci sono) del Manifesto, ma ai giovani che negli anni settanta facevano quel giornale e curavano quel movimento rispetto a una eredità micidiale di cui oggi abbiamo sotto gli occhi gli effetti devastanti, anche sulla aspettativa di vita. È stata gettata lì, alla commemorazione di Eliseo Spiga che si è tenuta la settimana successiva, e proprio da un giovane, in minuscolo perché dotato di un nome e cognome, una domanda non violenta ma sovversiva: che ne facciamo della Saras? È una domanda che mette in discussione una dei cardini delle idee del Manifesto di allora e, per certi versi, di oggi. Una domanda alla quale il giornale non si è sottratto, grazie agli articoli di Guido Viale, ad esempio, anche se questo significa mettere in discussione molto della storia del giornale e direi, un po’ di tutta la sinistra attuale e le sue prospettive. Temo che gli applausi virtuali che il giovane sta ricevendo nel web da compagni un po’ in là con gli anni coprano questa paura; ragioniamo per CATEGORIE, non rimettiamo in discussione cose vecchie. Joe, non ti fezzasta frigai.
1 Dicembre 2010 alle 10:12
Non siate ingenerosi con il giovane in questione. Era evidente che, per l’età e l’esperienza, non era in grado discutere pari a pari con Parlato e gli altri. Personalmente, poi, non mi convince la sua critica al Manifesto. Ma il fatto è un altro: dietro le sue parole c’era una critica di tipo generazionale, certamente poco sistematica, che andava ben oltre il tema del giornale. Badate bene: un tipo di critica che ormai è quasi sparita e che invece dovrebbe essere una spinta per migliorare il nostro paese. Su questo tema, Gramsci scrisse pagine ancora attuali. Penso che il Manifesto, che pur un contatto con i giovani l’ha sempre cercato, dovrebbe aprire un dibattito a fondo non tanto sulla generazione dei fondatori del giornale, bensí sulla generazione degli anni settana tout court. Che è poi la stessa che ha educato i giovani conformisti d’oggi -così li chiamano i “saggi”- e che comanda tutt’ora. Un dibattito di e fra giovani, che rompa il racconto autorefenziale che di quella stagione ci propongono i protagonisti dell’epoca (anche quelli che son passati a destra) e che gli aiuti a capire gli anni dell’inizio della crisi dell’Italia repubblicana. Una crisi che non è ancora passata e che vivono nella loro pelle.
5 Dicembre 2010 alle 19:06
Gentile Francesca
si è ingenerosi quando non si prendono sul serio le argomentazioni dell’interlocutore (giovane o meno) e si è paternalisti (o maternaliste) quando si danno pacche sulle spalle: suvvia è la gioventù che porta agli eccessi. Il tono “violento” e il contenuto maltusiano dell’intervento da me commentato nell’articolo li sento estranei ed è quello che ho messo in discussione cercando di smontare linguaggio e contenuto, magari con l’uso dell’ironia. Credo che rispettare una persona significhi prendere sul serio quello che dice e metterlo in discussione.
Per questo sono d’accordo con te a superare i dibattiti autoreferenziali e a questo mi riferivo nell’articolo.
Cordialmente
6 Dicembre 2010 alle 08:49
Per carità, caro Stiglitz, se c’è da criticare si critica. E nel caso del “Giovane” sono d’accordo con Lei: la sua era una critica violenta e alquanto imprecisa (sebbene, rapportata a quelle che facevano i giovanotti del Manifesto negli anni settanta, è un favola da Cenerentola. Altro che malthusianismo… quelli sì che ci andavano giù di brutto con i “tromboni” del PCI).
Insomma, continuamo a parlare di quegli anni e speriamo che lo facciano soprattutto i giovani d’oggi. Non se ne può più dei racconti nostalgici e narcisistici dei sessantottini che intervista Claudio Sabelli Fioretti.