Avremo bisogno di tutti i vostri soldi

16 Dicembre 2010

carta

Pierluigi Carta

L’istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo. Also Sprach Nelson Mandela, ma sbagliava, perché le armi più potenti utilizzate negli ultimi trent’anni sono le armi, quelle vere appunto, quelle di ferro e all’uranio impoverito, o quelle al fosforo, l’eroina e l’HIV, i think tank neoliberali, la propaganda dei media e i pastoni della tv commerciale, il taglio alla spesa sociale, la privatizzazione dei servizi e l’assottigliamento dei diritti dei cittadini. Quelli sì che hanno funzionato, quelli sì che hanno cambiato il mondo. Ora tocca all’istruzione e alla cultura, si alzano le voci, si occupano i palazzi, i monumenti, i tetti e si sventolano forbici, si impicca metaforicamente la Gelmini e ci si scorda di Moratti e Berlinguer, e andando un po’ più in là si dimentica quale becera istituzione sia la Scuola pubblica e più precisamente, l’Università pubblica. Quale ruolo abbiano svolto nel nostro paese, ovvero di riproduzione sociale, di perpetuazione della società sempre uguale a sé stessa. Per quanto riguarda il sistema scolastico cito la frase dello sceneggiatore Silvano Agosti, il quale augura che alle scuole capiti ciò che è accaduto ai manicomi, ovvero vorrebbe che venissero chiuse tutte fino all’ultima e afferma che –gli istituti scolastici rivelano inquietanti analogie con gli istituti di pena e coi campi di sterminio. Basta una piccola correzione: dalla scritta “il lavoro rende l’uomo libero”, si svelle “il lavoro” e si applica “lo studio”-.  Parlando invece delle Università potrebbe bastare un po’ di autocritica da parte dei docenti e dei ricercatori. Sarà pure impossibile fare di tutta l’erba un fascio ma qualcuno la colpa della marcescenza dilagante di tale istituzione se la deve accollare. Parla uno studente che ha visitato tre università d’Italia: Pisa, Roma, Cagliari. I problemi si ripresentano sotto le stesse forme: disorganizzazione, carenza didattica (sia qualitativa che quantitativa) assenteismo dei professori, proliferazione dei corsi, insegnamenti monolitici, scarsa flessibilità, scarsa o nulla attività pratica, irreperibilità dei tutor o dei docenti, strutture e strumentazioni inadeguate, vendita degli esami, stentato rapporto con la società civile e macchinoso adeguamento dei programmi allo sviluppo scientifico, etc. E per le stesse cause: malversazioni, mala gestione dei finanziamenti pubblici, familismo, nepotismo, corruzione, accidia nella ricerca e produzione scientifica, precariato strutturale, cumulo di professioni e cariche etc.  Dato che dio è morto e risorto e morto nuovamente per mano dell’intelletto e dello sviluppo, tanto vale far morire anche Galileo e tutta la sua schiatta, dato che l’odierna società sacrifica i vecchi padri per nuovi dei pagani ormai decadenti, quali il libero mercato e la privatizzazione. Dato che Machiavelli invece resta sempre in auge  e considerato che “il fine giustifica i mezzi”, sarebbe possibile dare ragione a Tremonti e alla ministra e, in nome della razionalizzazione, lasciare i ruderi dell’istruzione pubblica crollare come la borsa e affidiamoci ai privati. Oppure sarebbe più giusto, ma anche più cervellotico, intraprendere un’analisi delle storture, spesso gravi, e degli errori che le hanno causate. Serviva un mea culpa e il La viene dato dal prof. Giampaolo Loy, il quale afferma che anche i docenti “di pretesa estrazione democratica o sinistrorsa” hanno fatto la loro parte e che -hanno partecipato al saccheggio del bene pubblico piegando l’organizzazione e le scelte dell’Università per fini particolari-. E qui si può parlare di ingordigia saturnina. Egli inoltre pone l’accento sulle chiamate locali alla docenza, spesso teatro di scambi e favoritismi parentali o politici. Per quanto riguarda la razionalizzazione, Loy attacca la frammentazione della didattica e della proliferazione delle cattedre, vero e proprio buco nero del denaro pubblico, dal quale poche università si son salvate.  E se il professore parla di interessi corporativi delle diverse categorie coinvolte nella protesta, la ricercatrice Valentina Onnis ha un’opinione diversa, la quale dice di battersi, già da dall’ottobre dello scorso anno, per portare avanti un’idea di riforma universitaria congiunta con tutti gli altri attori del mondo accademico. Valentina Onnis fa parte dei coordinatori della Rete29Aprile, e nella controriforma Gelmini trova il buono solo nei principi ispiratori, che poi nell’articolato del disegno di legge si risolvono in un nulla di fatto ed in un affastellarsi di deleghe governative inutili per  una vera riforma dell’Università. I pochi spunti interessanti presenti nel disegno di legge (come l’inserimento di organi di controllo dell’attività di ricerca o l’istituzione dell’abilitazione nazionale)- afferma –perdono di ogni reale efficacia perché soverchiati dall’ideologia della quale è pregna, e perché la mancanza di fondi che li renderà di fatto irrealizzabili. L’abilitazione nazionale, senza adeguati strumenti di controllo sulle successive chiamate locali non porrebbe rimedio alla autoreferenzialità, alle storture e ai mali che oggi affliggono il sistema di reclutamento universitario. Un punto sul quale batte la ricercatrice è la “responsabilizzazione” dei commissari per la scelta dei docenti e per chi gestisce l’amministrazione dei finanziamenti. –Chi riveste tali ruoli- dice la Onnis –dovrebbe essere realmente investito della responsabilità sulle scelte operate, deve rispondere in prima persona di eventuali fallimenti o nocumenti al dipartimento, alla facoltà e più in generale alla comunità. Invece la riforma oggi come ieri non prevede alcuna responsabilizzazione dell’oligarchia a cui saranno demandate scelte strategiche come quelle su piani didattici e di ricerca e sul reclutamento o le progressioni di carriera. -La Gelmini insiste a parlare di lotta al baronato, però è facilmente smentibile- continua –dato che, parlando di una media università come quella di Cagliari, ma la situazione non è dissimile negli altri atenei, il potere decisionale, grazie alla sua riforma, passerà da una pluralità di organi accademici alle mani del solo Rettore, del CdA e di pochi altri professori ordinari. Ovvero su 2000 docenti tra docenti e personale tecnico-amministrativo e circa 35000 studenti, è ipotizzabile che il potere decisionale si concentrerà su non più di una ventina di soggetti-. Senza dimenticare che è prevista l’entrata nel CdA di non meno di tre soggetti esterni al mondo accademico su undici componenti, ovvero privati. E il CdA, coi suoi nuovi poteri, quasi fosse l’evoluzione di un Pokemon, deciderà anche sull’attivazione dei corsi e sulle assunzioni, esautorando il vetusto ma democratico Senato Accademico delle sue principali funzioni. Gli studenti invece, primi a salire sui tetti e ultimi certamente a scendere, non danno affatto l’aria di essere dei militanti pro-baroni, vorrebbero lottare uniti per un’università meritocratica, democratica e formatrice. Nel frattempo però, aspettando una precarizzazione di massa al termine degli studi, scaricano palline colorate in via Mannu e sventolano forbici di carta giganti davanti al palazzo della Regione.

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