Storie di uomini soli: L’uomo che volle essere Juan Peron
16 Giugno 2008
Mario Cubeddu
Per ragioni facilmente comprensibili, è sempre stato difficile in Sardegna fare lo scrittore di professione. Salvatore Satta insegnava Procedura Civile, Emilio Lussu avrebbe preferito dedicarsi a un saggio su Machiavelli, e fu Gaetano Salvemini a convincerlo a scrivere. Un anno sull’altipiano, Luigi Pintor era giornalista, Salvatore Mannuzzu era magistrato. Giulio Angioni e Luciano Marrocu continuano a fare i professori universitari e Milena Agus insegna alle Superiori. Scrittore “di professione” è stato in passato Sergio Atzeni e lo sono oggi Marcello Fois e Flavio Soriga. Questa premessa per arrivare a uno scrittore che fa di mestiere il giornalista e compare sulla scena letteraria con autorevolezza assoluta. Giovanni Maria Bellu è uno dei migliori reporter, italiani e sardi, della sua generazione. Che è quella del 77, per farla breve, quella che patisce il 68 come un’occasione sprecata. Bellu è inviato di Repubblica e autore di un bellissimo libro/inchiesta sugli scomparsi di Portopalo. Già quel lavoro era prova di scrittura, oltre che testimonianza civile e resoconto di un’inchiesta giornalistica. Ora Bellu continua il percorso con un’opera che sembra avere una impostazione simile. Spingendo un po’ più in là la fantasia. La ricerca in questo caso è quella di uno scomparso simbolicamente rappresentativo di uomini, ceti, un popolo intero, che svaniscono nel nulla per i motivi che lo scrittore si preoccupa di ritrovare. Forse spariscono solo perché morire fa parte di un destino comune a cui gli uomini non si rassegnano. Quest’uomo e questo popolo, hanno la propria sede in Sardegna. Giovanni Piras di Mamoiada è scomparso in Argentina ai tempi della Grande Guerra senza più dare notizia di sé. Vincenzo Cubeddu, cugino e omonimo di mio padre, è scomparso anche lui negli stessi anni e nello stesso posto. E quindi? C’è una differenza. Un issocatore ha preso al laccio Piras, s’acabbadora lo ha colpito col suo martello, ma invece di ucciderlo lo ha trasformato in Juan Peròn, presidente della Repubblica Argentina, marito di Evita, mito populista sudamericano come Fidel, il Che, Hugo Chavez. I barbaricini, si sa, non sono come gli altri sardi. Se vanno in Argentina, minimo diventano presidenti. Ma sarà vero? La storia studiata e raccontata da Canneddu, Casula, Ballore, è bellissima. Come l’Atlantide in Sardegna intravista da Egidio Pilia in un manifesto che fonda il sardismo e rinverdita da Sergio Frau, i Templari che da ordine monastico d’èlite diventano gli antenati di tutti noi poveri figli di servi giudicali, i poeti inventati cantati da tenores mediocri. Questa è anche la Sardegna di oggi, che spende per la farsa dei messaggi in sardo istituzionale e fatica a pensare la lingua sarda nelle scuole. Ma, attenzione, non bisogna farsi fuorviare. Giovanni Maria Bellu usa Giovanni Piras per parlare d’altro. Questioni importanti, per le quali basta evocare la figura e l’opera di Franziscu Masala, autore scelto da Bellu a garanzia dell’affidabilità ideologica del suo lavoro. Pochi romanzi degli ultimi anni hanno affrontato con pari profondità ed efficacia alcuni nodi che tormentano il popolo dei sardi da almeno duecento anni. Essi diventano parole, atteggiamenti, scelte di vita. Al centro vi sono il personaggio che racconta e suo padre. Il primo è un giornalista di sinistra maturato negli anni 70, che un po’ ce l’ha con “quelli del ‘68”. L’oggetto del contendere è la memoria. C’è una frase che chiude uno dei capitoli conclusivi del romanzo: “Non c’è nulla di più squallido di una generazione di fanatici che diventa una generazione di cinici.” Questo giudizio conclude una lettura del percorso psicologico di chi è passato dalle macerie e dalla fame del dopoguerra ai privilegi e alla rimozione attuale. Riguarda in particolare un personaggio di proletario, o piccolo borghese, di villaggio, valorizzato dalla politica dei partiti di massa dell’Italia repubblicana. Il narratore e suo padre appartengono invece al ceto dei nostri “Gattopardi”, che nobili non sono ed erano ricchi in rapporto alla miseria di un paese sardo. Il padre del protagonista e i suoi amici, che hanno nel romanzo un ruolo essenziale, sono cresciuti e hanno acquistato identità con il fascismo e hanno partecipato da protagonisti alle avventure dell’Italia di Mussolini. Eppure si sentono ancora molto “sardi”. Ogni generazione isolana definisce la sua identità nel mentre contratta la propria dipendenza. Padre e figlio sono uomini soli, come Giovanni Piras, come la compagnia degli emigrati. Non ci sono madri, non ci sono mogli, non ci sono sorelle. Forse perché non sono necessarie, forse perché, per riprendere l’espressione del notaio Sanna Carboni del Giorno del giudizio, le donne nel mondo esistono “solo perché c’è posto”’? Tutt’altro. La donna, la moglie, la madre, è venuta a mancare, o si è stati costretti ad abbandonarla. La perdita è talmente grave e dolorosa che appena si può rievocare il tempo in cui lei c’era. E la coppia dei veri protagonisti riuscirà a dimenticare l’assiduo e assillante dolore al petto che sentono da quel giorno solo con la compensazione illusoria della fantasia. Giovanni Maria Bellu mette con questo romanzo una pietra di confine, la sua Perda Pintà, alla “letteratura sarda” contemporanea. Credo sia tra i pochi che, senza parere, hanno il coraggio di confrontarsi alla pari con Salvatore Satta e Sergio Atzeni. Risuona la voce del primo nell’incipit dell’ultimo episodio del Quinto Atto: “L’andarsene non è la metafora della morte, ma la morte stessa. Non a caso, per farlo ci è indispensabile salire su una nave o su un aereo, qualcosa che, come l’anima, all’arrivo si separa da noi. Quando compiamo il passo ci aspettiamo un’accoglienza rassicurante come le braccia di una grande madre. Forse è questa la ragione per cui, nel tempo remoto in cui il mare ci era ancora amico, non facevamo altro che costruire piccole madri di pietra.” E chi tra gli scrittori sardi, se non il Sergio Atzeni di Passavamo sulla terra leggeri, ha osato dire “noi” e “nostro” parlando dei sardi?