Lui festeggia
16 Gennaio 2011Marco Ligas
In Sardegna il tema dell’organizzazione del lavoro non è mai stato affrontato con grande interesse dai sindacati e dai partiti. Parlo dell’organizzazione del lavoro, non del lavoro inteso come attività fondamentale per la vita delle persone. Percepito come impiego o occupazione, al contrario, il lavoro è stato sempre presente, seppure con valutazioni differenti, nei programmi delle forze politiche e sindacali.
Naturalmente ci sono ragioni storiche, culturali e anche territoriali che giustificano il minore interesse per questo tema.
Dell’organizzazione scientifica del lavoro si incomincia a parlarne all’inizio del novecento, con lo sviluppo dell’industria metallurgica, quando il sistema capitalistico, nelle nuove fabbriche nascenti, impone a ogni lavoratore un compito specifico da svolgere in un determinato tempo e in un determinato modo. L’obiettivo è quello di arrivare alla razionalizzazione dei cicli produttivi, sino a raggiungere i criteri di ottimizzazione economica (per l’impresa).
Ma l’industria metallurgica non decollò in Sardegna, e tutte le attività di trasformazione di materie prime e semilavorati che si diffusero nell’isola, a parte quelle minerarie, non raggiunsero mai livelli rilevanti. Solo nel secondo dopoguerra ha preso avvio un processo di industrializzazione i cui esiti però sono rimasti piuttosto lontani dalle aspettative che si erano create, non solo perché non sono state valorizzate le risorse locali ma anche perché gli obiettivi della piena occupazione sono rimasti un miraggio.
Sta di fatto che anche nella seconda metà del secolo scorso e nel primo decennio di quello attuale si è parlato poco di organizzazione del lavoro; non si è sviluppata, anche per ragioni oggettive, quella cultura capace di mettere al primo posto la necessità della tutela dei diritti del lavoro a partire dai luoghi dove si svolge l’attività produttiva. Tutto il dibattito sul processo di industrializzazione si è sempre svolto su un piano più arretrato, talvolta anche parallelo rispetto a quello nazionale. Costantemente si sono presentati gli stessi interrogativi: se fosse opportuno o no investire (naturalmente con sovvenzioni pubbliche) per creare nuove imprese, o risanare quelle che, pur avendo ricevuto finanziamenti pubblici, giungevano sino all’orlo del collasso con gravi conseguenze per l’occupazione. Nonostante il sostegno rilevante del settore pubblico oggi tutte le aziende che operano nell’isola, e ne sono rimaste poche, sono caratterizzate da rapporti di lavoro che vedono nella precarietà il dato unificante: cassa integrazione, lavoro a part time, a progetto, a tempo determinato, con contratto di formazione, ecc. Insomma le prospettive non sembrano incoraggianti.
Tuttavia, proprio perché la Sardegna sta vivendo una crisi molto grave, è auspicabile che i temi del lavoro e della sua organizzazione vengano affrontati con più determinazione di quanto sinora si è fatto. Sarebbe importante che diventassero l’obiettivo permanente di tutti coloro che intendono difendere la democrazia nel nostro paese e assicurare condizioni di vita dignitose a tutti i lavoratori. L’attualità di questo obiettivo è resa più urgente dall’attacco che viene condotto in modo concentrico dal padronato e dal governo. I ricatti su Pomigliano e Mirafiori non riguardano soltanto quei territori, hanno un effetto moltiplicatore: colpiscono indistintamente tutti coloro che lavorano o sono alla ricerca di un lavoro; i bersagli non sono soltanto gli operai dell’industria, ma anche i lavoratori delle campagne, quelli del terziario, gli studenti e soprattutto le fasce più deboli della popolazione.
Qualcuno ha detto che la Fiat vuole imporre un orario di lavoro che riporta la condizione operaia indietro di 50 anni; forse c’è in questa cifra una stima per difetto ed è più realistico parlare di un nuovo ottocento. Come interpretare diversamente i turni di lavoro che vengono imposti e che prevedono, nel caso in cui l’orario settimanale superi le 40 ore, un recupero giornaliero la settimana successiva che però diventa teorico perché sono previste 120 ore di straordinario obbligatorio? E le pause ridotte da 40 a 30 minuti e il tempo della mensa che viene spostato a fine turno, e la sospensione del diritto di sciopero? Siamo davvero tornando ad una concezione del mondo dove le relazioni tra gli uomini, in nome della globalizzazione, tendono a fondarsi sulla sopraffazione e sulla violenza. Prendere o lasciare è stato lo slogan lanciato da Marchionne; se avesse vinto il NO lui avrebbe festeggiato a Detroit. A Detroit o a Torino festeggerà comunque, ma talvolta dopo le feste, anche per gli insolenti, arrivano i contraccolpi. E, visto l’esito certo non travolgente del referendum, non è escluso che Marchionne li subirà presto, sebbene abbia ricevuto il sostegno di Berlusconi, un altro personaggio abituato ai festeggiamenti (o festini).
18 Gennaio 2011 alle 10:10
Secondo alcuni siamo passati ad un nuovo modo di produzione capitalistico, definito “capitalismo cognitivo”, che mette in valore non più la forza fisica, muscolare degli operai, ma le capacità relazionali e comunicative, per cui si sarebbe passati in questi ultimi decenni dalla messa in valore di una forza produttiva materiale a una sempre più immateriale e intellettuale. Questa sorta di smaterializzazione del lavoro avrebbe portato all’indistinzione dei luoghi della produzione e della riproduzione, all’indistinzione fra fabbrica, università e metropoli capitalista.
Dunque sarebbe scomparsa la classe operaia e la lotta di classe, perché si è passati dalla fabbrica degli oggetti (cioè dalla produzione di merce materiale) alla fabbrica delle parole (cioè alla produzione di merce immateriale). Insomma la classe operaia non esisterebbe più e anzi non produrrebbe più beni, perché non sarebbe più il lavoro a produrre i beni, ma la scienza e la tecnica . Dunque le conoscenze verrebbero concepite direttamente come mezzi di produzione: per esempio, lo studente diverrebbe immediatamente produttivo nell’università, e l’università si trasformerebbe nella ‘fabbrica del sapere’. Il sapere però non è direttamente produttivo, ma passa attraverso la riduzione del lavoro umano in capitale.