Roger Ballen, Dietro l’ombra
1 Agosto 2008“La fine del mondo”. Le teste di due bambolotti, la parte posteriore del corpo bianco di una cavia emergono dalle cavità di una chiara parete, spruzzata da schizzi di vernice. Potrebbero essere macchie vermiglie, tracce di sangue, ma il bianco e nero della fotografia trasfigura; appaiono nere e cupe. Segni di fil di ferro. Il corpo sintetico di un fantoccio giace di spalle sul pavimento, sotto una delle teste. In linea con l’altra e col mezzo corpo di topo da laboratorio, sempre sul pavimento, è fotograficamente congelato il corpo nero di un gatto, di muso e zampe bianche. E il pavimento è chiazzato dal nero. “Il giorno del giudizio”. Un inquietante, infantile graffito antropomorfo traccia con pittura bianca la parte inferiore e piena di un corpo, segni scuri rendono il capo e le braccia, tese verso l’alto, con mani a tre dita: paiono zampe di pollo. Del filo spinato attraversa l’immagine, disegnando a sua volta una mezza figura. Un’oca imbrigliata da lacci é posata, come un olocausto, sul piano di legno di un tavolo. Sulla parete altri segni, confusi. “La casa pazza”. Una lavagna presa in prestito da una scuola materna, su cui è disegno il viso squadrato e barbuto di una sindone. Un’altra parete macchiata. Una gruccia per abiti, una cravatta, una foglia. Sul pavimento, sotto la lavagna, un coniglio bianco e lunghe tenaglie da fabbro. Sulla sinistra, poggiato alla parete, il corpo senza testa di un pupazzo sul quale è riprodotto un volto capovolto. Sono i titoli, e le relative descrizioni, di tre immagini del fotografo statunitense Roger Ballen, la cui opera è presentata in una mostra dal titolo “Dietro l’ombra”, ospitata sino al 7 settembre a Villanova Monteleone, a “Su Palatu e sas Iscolas”. Roger Ballen è nato a New York nel 1950, ma vive da circa trent’anni a Johannesburg, in Sud Africa, dove svolge la sua attività di consulente geologo per società minerarie. Figlio di una foto-editor della celebre agenzia fotogiornalistica “Magnum Photos”, Ballen cresce a contatto con molti importanti protagonisti del fotogiornalismo più attento. Comincia ad utilizzare la fotografia come strumento espressivo sin dalla fine degli anni sessanta quando, diciottenne, documenta il movimento di protesta contro la guerra del Vietnam. In quel periodo lascia New York, si trasferisce a Berkeley, centro principali del movimento studentesco e pacifista statunitense. Nel 1972 si laurea in psicologia presso l’Università della California. Ballen pian piano matura un senso di distanza nei confronti del paese natale e dello stile di vita americano: lo sente poco favorevole all’introspezione ed incline al consumismo, permeato di valori che percepisce come estranei e lontani dalle sue sfere di interesse. Dopo la laurea decide quindi di partire per una sorta di viaggio di ricerca, un viaggio che lo porta in Sudafrica, il paese dove si è poi stabilito definitivamente. Nel frattempo ha comincia i suoi studi di geologo e nel nuovo paese intraprende un’ attività che lo porta a viaggiare al lungo, visitando zone rurali anche molto remote. Il suo è un lavoro indipendente che gli permette di dedicarsi anche alla fotografia. Il primo libro, pubblicato nel 1979, si intitola “Boyhood”(Fanciullezza). Ritratti di ragazzini al limite tra fanciullezza e prima adolescenza, immagini in bianco e nero intense e di qualità, ma lontane anni luce dagli sviluppi che prenderà la fotografia di Ballen, anche se guardandole in retrospettiva cominciano già da allora ad emergere i tagli e i segni di alcune delle caratteristiche del lavoro futuro di Roger Ballen. La presenza di piccoli animali, imprigionati non da lacci e laccioli ma dalle mani dei ragazzini; le scritte su una parete di legno si dipanano in forme che preludono ai graffiti e ai segni, e alle macchie, che affollano muri e pareti, sfondi costanti delle future immagini. Nel 1981, completato il dottorato di ricerca in geologia, si trasferisce definitivamente in Sud Africa, si sposa e porta avanti un lavoro fotografico di documentazione della vita nei villaggi e nelle zone rurali del paese. Ne raccoglie i frutti in due volumi: “Dorps, Small towns of South Africa” del 1986 e “Platteland: Images of rural South Africa” del 1994. Si tratta sempre di fotografia documentaria ma è palese una maturazione rispetto a Boyhood: lo sguardo indaga prima gli interni delle case, spogli e vuoti, privi di occupanti, poi si sposta sugli abitanti, non più soltanto uomini ma quasi sospesi a mezz’aria tra la condizione umana e quella di creature altre, che incontreremo più avanti nel lavoro di Ballen. Comincia a prendere forma, particolarmente in Platteland, un mondo nuovo, e già nei visi e nelle situazioni è ben presente l’invisibile filo che lega questo al suo lavoro futuro. A questo punto la fotografia di Ballen si sposta su un piano diverso, diventa “costruita” e migra decisamente verso una narrazione di fantasia. Nel 2000 pubblica Outland, in cui è raccolto il materiale prodotto dopo la svolta, ancora vicino alla freschezza quasi barbarica delle precedenti immagini, in bilico tra il suo passato fotografico e quello che verrà. .E nel 2005 arriva Shadow Chamber. Qui il distacco dalla prima produzione in Sud Africa è più netto e deciso, le fotografie sono mappe istoriate dalle tracce che indicano passaggio e presenza di esseri, umani o animali, o creature meticce. Le immagini sono ora palesemente costruite, frutto di una messa in scena evidente, eppure contengono ancora elementi di spontaneità. Lo stesso Ballen peraltro sostiene che “fare una fotografia non è mai ripetersi; lavoro a piccoli passi, in un processo di interazione con ciò che mi circonda, facendo insieme i conti con la mia sensibilità interiore e la mia lunga consuetudine con la fotografia. In altre parole sono contemporaneamente un artista e uno scienziato. Non mi è esattamente chiaro cosa significhi alla fin fine il termine “fotografia costruita”, al di la del fatto che i soggetti sono consapevoli del fotografo o che l’ambiente intorno sia stato volutamente manipolato. Ci sono nelle mie fotografie elementi che uno potrebbe classificare come “messi in scena”, ma ve ne sono altri che “accadono” in modo spontaneo mentre realizzo l’immagine.” Ballen è stato (lo è ancora) un autore discusso, in particolare per il fatto di aver prodotto una fotografia lontana dal documentario con marcata attenzione al sociale, e questo in un paese come il Sud Africa, sconvolto dal razzismo e dalla brutalità e violenza del regime dell’ apartheid. Pur partendo dalla tradizione della fotografia di documentazione e del fotogiornalismo di approfondimento, della quale aveva assorbito e compreso appieno forme e intenzioni, Ballen non si è fermato, non si è voluto, forse non ha potuto, limitare a mostrare “la realtà”, che sbrigativamente può apparire il compito vero ed essenziale della fotografia. Roger Ballen mira in alto col suo obiettivo e la sua scatola magica. Propone riflessioni sull’inconscio, sull’assurdità della condizione umana e dei viventi, vuole raccontare ciò che non si può definire, rappresentare l’invisibile. Non è un caso se le sue immagini inquietanti ci hanno fatto pensare alle icone e a una recente trasmissione radiofonica in cui Enzo Bianchi, priore del monastero benedettino di Bose, parlava di questa forma di rappresentazione pittorica dell’oriente cristiano che, come tutta la pittura e la produzione artistica di immagini, si pone appunto il problema di leggere e rappresentare l’invisibile. “Parlare di icone” sostiene Bianchi “è un modo di riflettere sul nostro rapporto con la dimensione dell’invisibile, sulla sua rappresentabilità, sulla nostra modalità di metterci in relazione con ciò che alcuni chiamano Dio e per altri è l’insondabile segreto della vita umana.” Villanova Monteleone-Su Palatu e sas Iscolas”, fino al 7 di settembre, aperto tutti i giorni tranne il lunedì, dalle 16 e 30 alle 20 e 30.