Una crisi senza fine
1 Maggio 2011Marco Ligas
Al di là della prova di forza dall’alto indicata recentemente da Asor Rosa, forse come provocazione, per contrastare lo sfascio dello Stato, è fuor di dubbio che la sua analisi riflette correttamente lo stato delle cose. Non c’è giorno in cui non emerga il degrado della vita politica. È persino difficile star dietro ai molteplici episodi che la nostra classe dirigente affronta con cinismo e disinvoltura.
Riflettiamo un attimo sulle vicende nordafricane. Da quando sono in corso le rivolte popolari è cresciuto il numero di coloro che abbandonano i loro paesi e cercano rifugio nelle sponde opposte del Mediterraneo, soprattutto in Italia. Ebbene, una prima distinzione inventata dai nostri governanti è quella tra rifugiati e clandestini: ai primi dovrebbe essere garantita l’accoglienza (?), ai secondi il rinvio nei paesi di provenienza. Ma il numero di questi esseri umani è diventato eccessivo e la loro presenza nei nostri territori è stata ritenuta un pericolo per l’ordine pubblico, ecco allora le soluzioni di due campioni dell’accoglienza, i leghisti Maroni e Speroni: incominciamo a respingerli, hanno detto, sparandogli addosso, vedrete che rifletteranno bene prima di invadere ancora il nostro paese; dobbiamo sconfiggere la loro ottusità visto che neanche i disastri del mare, con le centinaia di morti, hanno un effetto scoraggiante. Non sottovalutiamo un particolare: a pronunciare queste sentenze sono rispettivamente il nostro Ministro degli Interni e un europarlamentare.
I nostri rapporti con la Libia sono difficilmente definibili: impudenti, opportunistici, arroganti, imposti da chi è più potente di noi? Forse tutte queste cose assieme. Non può comunque non sorprendere la rapidità dei passaggi dalla dichiarazione di amicizia con Gheddafi a quella successiva dell’entrata in guerra. Neanche il ricordo del passato, del 1911, ha suggerito un diverso atteggiamento nei confronti del popolo libico, non foss’altro per evitare un ulteriore irrigidimento dei rapporti tra le popolazioni dei due paesi. Anzi, dopo qualche incertezza iniziale, la nostra missione di guerra, guidata dal duo Frattini-La Russa, mostra la sua efficacia individuando gli obiettivi militari e colpendoli con la dovuta determinazione.
Se accantoniamo il discorso sulla guerra e affrontiamo quello sui referendum le conclusioni non cambiano: ancora una volta il ruolo del Parlamento e la sovranità popolare vengano sviliti e subordinati all’arroganza dell’esecutivo. Si cerca di aggirare un’iniziativa popolare che si pone l’obiettivo di definire una volta per tutte se nel nostro paese si possano o no costruire delle centrali nucleari. Il tentativo che il governo cerca di realizzare, incurante delle norme sul referendum, consiste nel rinvio della decisione. Attualmente, ci spiegano, siamo troppo condizionati da ciò che è successo in Giappone, sarà difficile perciò fare delle scelte meditate, meglio rinviare. Peccato che la proposta del referendum sia precedente al terremoto e allo tsunami giapponesi.
In Sardegna siamo particolarmente sensibili al nucleare, non lo vogliamo non solo perché è prevista la costruzione di una centrale nella nostra isola ma anche perché riteniamo dannosissimo questo investimento, ovunque si faccia. Pur non essendo degli esperti, ci bastano due certezze per escluderlo da una politica che non sia basata sulla speculazione: le conseguenze derivanti dagli imprevisti, qualunque siano, e la gestione delle scorie.
Allo stesso modo in cui si cerca di imporre l’ipotesi nucleare viene liquidata lentamente la debole struttura industriale presente nell’isola. Il caso più clamoroso riguarda la chimica. Dopo diversi decenni l’ENI, con ipocrisia e irresponsabilità nei confronti dei lavoratori, decide la chiusura degli stabilimenti. Non c’è più tempo per ulteriori verifiche, i cassintegrati dell’Asinara possono rassegnarsi, il ciclo è finito.
Un aspetto drammatico che si aggiunge alla disoccupazione che colpirà diverse centinaia di lavoratori è quello relativo ai danni del territorio. Chi lo risanerà? Sarà possibile un piano di reindustrializzazione che garantisca al tempo stesso sia un futuro ai lavoratori sia l’avvio di attività produttive capaci di tutelare un ambiente sin troppo devastato?
Ciò che appare oggi necessario è che qualsiasi piano industriale per la Sardegna, perché sia credibile, dovrebbe stare dentro un provvedimento legislativo che veda impegnato il nostro governo sia nella definizione delle risorse sia nel reimpiego dei lavoratori. Ma parlare di queste cose e avere come interlocutori Ministri di questo Governo è come parlare al vento.È significativo vedere come Massimo Fantola, candidato Sindaco del centro destra al Comune di Cagliari, mentre ipotizza per la città e il suo hinterland, la realizzazione della metropolitana di superficie, trova nel Ministro della sua coalizione una immediata smentita: più opportuna una vecchia proposta cara al sindaco Floris relativa alla metropolitana sotterranea!
C’è da chiedersi se sia possibile uscire da questa crisi. Non c’è da farsi illusioni, soprattutto quando sentiamo da parte di qualche leader del maggiore partito di opposizione, per esempio da Veltroni, affermazioni come queste: “importante coinvolgere nel progetto del partito figure come Matteo Renzi, Nicola Zingaretti e Sergio Chiamparino, e tutte quelle personalità che non sono direttamente riconducibili al mondo della politica ma che non aspettano altro che avere la propria occasione per dare un grande contributo al progetto del centrosinistra”.
Che non stia pensando a qualche altro Calearo?