Primavera araba
16 Maggio 2011Nicola Melis*
Dal momento in cui è cominciata fino ad oggi, la così detta “primavera araba” ha suscitato in genere nell’opinione pubblica uno stupore e un’incapacità diffusa di prevederne il risultato finale. In questo senso, le opinioni degli osservatori sono le più disparate e per lo più confuse.I paesi che hanno dato il via a questa sorta di 1848 del nuovo millennio, sono stati in un primo tempo al centro dell’attenzione dei media, per poi finire in fondo pagina Esteri (l’Egitto) o persino dimenticati (la Tunisia). Altre rivolte popolari che sono seguite di poco, quelle di Yemen e, soprattutto, del Bahreyn, non sono state prese in gran considerazione dalle testate giornalistiche. Gli stati coinvolti nella “primavera araba” e le popolazioni che vi abitano continuano ad esistere e a vivere momenti di crisi e di caos istituzionale, che sfociano un giorno sì ed uno no in scontri con le forze di pubblica sicurezza in un clima fortemente repressivo.Il caso della Tunisia è eclatante: se era nelle prime pagine fino al momento in cui Ben Ali e il suo entourage sono stati cacciati dal paese; è oggi pressoché scomparsa dalle notizie. Come se fosse passata di moda o avesse risolto tutti i suoi problemi. I casi della Siria e del Bahreyn sono caratterizzati da una certa partecipazione delle forze armate nella repressione dei moti di protesta, ma non hanno suscitato troppi scandali nelle opinioni pubbliche internazionali perché la caduta dei rispettivi regimi, costituiti da membri di gruppi etnico-confessionali minoritari, potrebbe avere effetti così negativi sugli equilibri di potere regionali e internazionali, che si può chiudere un occhio rispetto a misure repressive non dissimili da quelle esercitate da altri regimi della regione, come quello libico, e stigmatizzate dai difensori dei diritti umani di turno.Un gruppo di paesi arabofoni, diversi per storia e natura istituzionale, ma uniti da un certo livello di autoritarismo, come il Marocco, la Giordania, l’Algeria, l’Arabia Saudita e l’Oman, sta cercando di placare gli animi esacerbati dei propri cittadini proponendo riforme e modifiche costituzionali che dovrebbero gradualmente attenuare le attuali politiche repressive. È da verificare, tuttavia, quale possa essere l’accettazione di tali riforme e quale sia la loro effettiva applicazione e in quali tempi.Inutile dire che, vada come vada, i cambiamenti nel mondo vicino orientale e nordafricano cambieranno la mappa politica della regione. Senza arrivare e supportare le diffuse teorie del complotto in base alle quali tutta la “primavera araba” sarebbe il frutto di una strategia pianificata da parte di qualche esponente del neoimperialismo internazionale e/o regionale, è indubbio che questi cambiamenti non sembrano il frutto di dinamiche esclusivamente interne. In particolare, non è chiaro nemmeno quale sia il ruolo giocato dai tre attori non arabi della regione, cioè la Turchia, l’Iran e Israele. Un’eventuale svolta democratica dei movimenti di protesta in atto potrebbe creare un certo disagio tanto nel governo iraniano che in quello israeliano. Nel caso dell’Iran, il disagio sarebbe anche conseguenza del moto di protesta interno che è stato violentemente stroncato gli anni scorsi e che potrebbe essere risvegliato dai successi altrui. Nel secondo caso, perché Israele vedrebbe oscurata la propria retorica di unica vera democrazia in una regione abitata da incivili regimi autoritari. Inoltre, il successo dei moti di rivolta dell’Egitto e degli altri paesi arabi ha dato nuova linfa alla resistenza della popolazione palestinese di fronte alle politiche aggressive israeliane. I fatti di questi giorni potrebbero essere letti come una reazione a questo nuovo entusiasmo palestinese.Le truppe israeliane hanno aperto il fuoco a manifestanti arabi lungo tre confini diversi, provocando almeno 12 morti e centinaia di feriti durante celebrazioni della Nakba, la luttuosa ricorrenza dei tragici eventi che nel 1948, in occasione della costituzione dello stato di Israele nei territori palestinesi, causò l’eccidio e la cacciata di centinaia di migliaia di arabi autoctoni. L’incidente più grave si è verificato al confine con la Siria, dove forze dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro i manifestanti. Decine sono stati feriti e sei sono stati uccisi. Scontri violenti hanno avuto luogo anche lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano, così come nella striscia di Gaza (confine meridionale di Israele).Israele accusa la Siria di fomentare la violenza nel tentativo di distogliere l’attenzione dalla repressione nei confronti dei detrattori del presidente Bashar al-Asad. Ma, in realtà anche la Siria i giorni scorsi aveva accusato Israele di avere partecipato attivamente nell’organizzazione dei moti di protesta. La situazione, quindi, appare sempre più ingarbugliata.Probabilmente, oggi solo la Turchia, pur con tutte le sue contraddizioni, è il paese più in sintonia con le forze positive del nuovo Vicino oriente e con le aspettative degli arabi. Non a caso gli analisti parlano di “modello turco” per i nuovi stati arabi o di “modello ottomano”, che determinerebbe un Vicino oriente attuale egemonizzato dalla Turchia, un tempo centro dell’Impero ottomano, composto anche dai territori degli attuali stati arabi. Il governo di Erdogan, pur avendo al suo interno fazioni filo-islamiche, non è affatto radicale o “fondamentalista”, ma piuttosto un pragmatico liberal-liberista. Se fosse anche in grado di risolvere le contraddizioni interne alla Turchia …
*Docente di Storia e istituzioni del Vicino oriente (Università di Cagliari)