S’attera die ‘e Sa Sardigna
1 Giugno 2011Joan Oliva
Da bambino il palazzo che sorgeva di fronte al Teatro, alla sinistra del nostro, era per me “un po’ in continente”. Non saprei come spiegare questa sensazione, ma, per qualche ragione, mi sembrava che quello fosse più vicino alla penisola italiana del palazzo accanto, dove abitava la mia famiglia.
Non so se fosse perché semplicemente il continente era nella mia infantile immaginazione collocato nel mondo esterno alle mura domestiche, e quindi era qualcosa che iniziava già appena fuori di casa. O forse perché quell’edificio mi sembrava avesse qualcosa di “meno connaturato al luogo”, come un carattere “importato”, perché era stato danneggiato dai bombardamenti e parzialmente ricostruito dopo la guerra. O forse perché alcune persone che ci vivevano erano emigrate in continente, come le figlie di una vedova con la quale eravamo in grande familiarità, che se ne erano andate a lavorare in Piemonte.
La nostra piazza comunque non era il porto. Di forestieri continentali se ne vedevano pochi allora. E raramente. Ricordo però che arrivavano periodicamente le moto-carrozzelle di quelli che raccoglievano le belle chiome delle donne sarde per farne parrucche. Venivano dal cuneese (ma questo l’ho saputo solo dopo molti anni) forse erano proprio i “Pelassiers” di Elva. Erano una famiglia specializzata nella raccolta delle castagne, in Piemonte, e dei capelli, nelle regioni più povere dell’Italia. Apparivano dal carrer de Bonaire (la via Principe Umberto) e si fermavano, nell’angolo opposto al Teatro, proprio sotto il palazzo continentale, con la loro moto-carrozzella colma di oggetti, soprattutto di plastica, proponendo a voce alta, amplificata dalle trombe degli altoparlanti, il loro iniquo scambio: una bacinella “leggera e infrangibile” o più spesso una bambola (di quelle vestite da sposa che finivano per adornare i letti matrimoniali o i divani) in cambio di una lunga treccia di capelli. Le ragazze si lasciavano tagliare i capelli.
Erano molto ingenue e sprovvedute. A volte erano le stesse madri che convincevano le figlie a farsi tagliare i capelli, con la scusa che anche qui era arrivata la moda dei capelli corti. In sostanza, un attributo di bellezza femminile veniva scambiato con un oggetto di scarso valore.
Molti anni dopo mi è venuto in mente che questa storia potesse essere una metafora della svendita e dell’abuso delle zone costiere della Sardegna. L’eccezionale natura dei luoghi tagliata, squartata, lottizzata, separata dal territorio, sottratta alla comunità dei suoi abitanti, per diventare, una volta ridotta a merce, “bene trasferibile”, proprietà altrui, oggetto di vanità, mera cornice, fruita saltuariamente (proprio come una parrucca, o un tupè), per valorizzare, rendere più “carino” (anche nel senso del valore immobiliare) un altro corpo. Vanitosa ghirlanda attorno alle ville progettate per le vacanze dei ricchi, come serto attorno a certi resort per escort. Ma quei cuneesi non sono da considerarsi le avanguardie degli speculatori e devastatori delle coste sarde. Quelli erano solo dei poveracci.
Non so se si fossero arricchiti con quel commercio. Io me li ricordo come dei girovaghi che cercavano di sbarcare il lunario, in maniera stravagante. Il primo forestiero che ho visto proprio entrare nella casa di nostra nonna, che peraltro era una persona piuttosto diffidente, credo fosse proprio uno sinto piemontese. Uno zingaro. Un signore di carnagione scura, barba non fatta, cappello nero a falde larghe, con una gabbietta appesa al collo nella quale c’era un piccolo pappagallo addestrato a tirar fuori da un cassettino, con il suo becco, i colorati “biglietti della fortuna”. Oroscopo e numeri da giocare al lotto. Mia nonna, contravvenendo alla sua solita prudenza, non si perdeva mai l’occasione di questo incontro con la buona sorte. Poi puntava poche lire su quei numeri. Divertita come una bambina ci raccontava che qualche volta aveva anche vinto. Ecco questi sono i miei primi ricordi di quella umanità varia, composta dai “forestieri”, che poi a frotte sempre più numerose e più frequenti, sarebbe comparsa ad Alghero.
Certo da bambino non avevo ancora realizzato che anche la nostra famiglia era un po’ “forestiera”, approdata ad Alghero da appena due generazioni. Proveniente anch’essa dal Piemonte.
Ogni anno, in coincidenza con “sa die ‘e sa Sardigna”, mia madre, figlia di un piemontese emigrato, nata e vissuta in Sardegna, sarda quindi, perché così lei era fiera di essere e si definiva, (e sarda tifosa: la sua squadra del cuore era il Cagliari, non la Juve o il Toro), si chiudeva in una sorta di scontroso mutismo. Se le si chiedeva il perché lei rispondeva che non aveva niente da festeggiare. Risentita rimuginava turbata l’espressione “cacciata dei piemontesi” che sentiva nei notiziari regionali alla televisione e ne soffriva. Quella festa la feriva, dentro. Non amava quelle celebrazioni, con tanto di parodistiche ricostruzioni. Avrebbe preferito festeggiare “sa die ‘e sa Sardigna” il 22 gennaio, giorno di nascita di Antonio Gramsci.
Mia madre era in un certo senso una testimonianza vivente che le identità sono delicate costruzioni che si arricchiscono nel momento dell’incontro, piuttosto che nel momento della contrapposizione, della sopraffazione, della segregazione, della esclusione o dell’espulsione di qualcuno.
Sarda figlia di un piemontese si era sposata con il figlio di una sarda, nato a Genova. Si commuoveva, fino al pianto, ascoltando le notizie delle sofferenze e delle tragedie degli emigrati che attraversano il nostro mare provenendo da altre sponde.
2 Giugno 2011 alle 11:17
Bellissimo articolo. (Ricordo perfettamente il taglio delle trecce a me e alle mie sorelle quando eravamo bambine, in cambio di una “bellissima” bambola.)
2 Giugno 2011 alle 13:05
Bellissimo e commovente! Commozione di umanità, non di retorica…
2 Giugno 2011 alle 17:56
Grazie a Maria Immacolata e a Paolo. A Maria Immacolata vorrei chiedere di raccontarci qualcosa di più di quel ricordo, se le fa piacere.
Da tempo mi chiedevo chi potesse aiutarmi a ricostruire meglio quella storia.
joan