Mr. Robinson
1 Agosto 2011Marcello Madau
Che lettura estiva superba, per chi non la conoscesse, quella di Robinson Crusoe. Per alcuni è difficile sfuggire alla tentazione di trattare male questo libro: i nostri valori – altri da quelli del primo Settecento – trovano ostacoli in questo naufrago interessato e un po’ razzista, di fronte al quale persino Odisseo, sovrano di Itaca e re di tutti i naufraghi, appare più democratico.
Eppure all’epoca (la prima edizione credo risalga al 1719) il libro di Daniel Defoe fu una vera rivoluzione, più o meno come quella che preparava la borghesia in crescente e tutt’altro che facile o scontata affermazione nel primo Settecento britannico. Oggi l’immagine dell’uomo solo in un’isola è abbondantemente riattualizzata dalle impossibili prove ‘di coraggio’ di vari personaggi.
Ma anche Robinson e la sua naturale capacità furono forse un’invenzione propagandistica… Questo punto di partenza non necessariamente depone a sfavore del libro, e dimostra la durata della leggibilità di Robinson Crusoe. Il romanzo ruota attorno ad un giovane diciottenne desideroso di esperienze che fugge dall’autorità della famiglia: per provare a farcela da solo. Finché, dopo diverse avventure (sostanzialmente di speculazione finanziaria), finisce per naufragare in un isola dell’America Meridionale.
Vi fonda, in ventotto lunghi anni, una personale capacità di sopravvivenza, con qualche attacco febbrile e diverse crisi mistiche, forse in coincidenza. Libera un ‘selvaggio’ (il celebre Venerdì) inseguito dai cannibali, che diventerà il suo fedele servitore e verrà da Robinson civilizzato. Grazie ad una nave (gli ufficiali sono tratti in salvo dal nostro eroe) torna in Inghilterra “l’11 giugno del 1687, dopo un’assenza durata trentacinque anni”. Farà fortuna in Brasile, dopo essere passato per Spagna, Francia e Portogallo.
Ingeneroso dimostrare come questo romanzo rappresenti la sfera desiderante di De Foe-Crusoe, fino a prefigurare un eroismo, una fortuna finanziaria e un successo in perfetto stile coloniale, con recupero alla civiltà del buon selvaggio, che certo non arrise allo sfortunato signor Foe (il suo vero nome: il ‘De’ lo aggiunse, come direbbe Jannacci, per non essere da meno). Speculatore incallito e sfortunato, campione del doppio gioco e portavoce ora dei conservatori ora dei progressisti, considerato maestro del giornalismo – anche in questo campo ci possono ovviamente essere cattivi maestri –, finì povero, in rovina e tradito dal figlio. Vita e romanzo potente metafora della società emergente.
Eppure il messaggio ha un suo spessore denso: la capacità di sopravvivere dignitosamente non è così da scartare, come quella di costruirsi ciò che serve facendo funzionare il cervello. Né il valore, nell’immaginario di molti, del ricominciare da capo, della solitudine, della capacità di organizzarsi. In un’epoca nella quale le idee innate godevano di molta fiducia e vi era un continuo cedimento psicologico a quel ‘refugium peccatorum’ che è la Provvidenza, qualche iniezione di empirismo serviva.
Non sono i livelli freddi e rivoluzionari percorsi qualche decennio più tardi da David Hume; ma che strana Provvidenza quella che pare incarnarsi – nel gioco di specchi del divino – in Hermes-Mercurio, nell’apoteosi del commercio e della sua spinta. Da ragazzino non mancò di affascinarmi per questo, anche se, da sardo, Robinson Crusoe mi ricordava qualche turista in cerca di esotico. Più avanti qualche riformatore piemontese nella Sardegna selvaggia.
Non c’è disaccordo, nella critica, sul collegare vita e opere di Defoe e Robinson all’emergente borghesia nella sua emancipazione dal feudalesimo. Lo stesso autore – con qualche sofferenza interna rovesciata in una straordinaria quantità di scritti – non ebbe un’educazione aristocratica. In Crusoe la società conta in funzione dell’individualismo, tutta la storia appare di radici profondamente liberiste. Anche nella forza espansiva del capitalismo stesso, da subito colonialismo senza problemi e civilizzatore di selvaggi: moderatamente tali, alla fin fine, nei tratti e nei modi, come si evince dalla descrizione di Venerdì.
L’idea della libertà naturale, del recupero dei valori naturalistici (più un messaggio di immagine, che reale nel romanzo) e del mito del ‘buon selvaggio’ non mancò di avere negli anni Sessanta del Novecento qualche riscontro diretto o indiretto nell’itinerare degli hippies. E anche nella preistoria gucciniana della canzone “L’Antisociale”, estrapolata dall’Équipe 84 dalla coppia oppositiva con “Il sociale” (sempre di Guccini): “In un’isola deserta voglio andare ad abitare, e nessuno mi potrà più disturbare”. La spinta propulsiva della borghesia inglese e del calvinismo non apparteneva al popolo dell’Isola di Wight, alla non sempre tonica fabbrilità dei ‘frikkettoni’. Ma tra i ‘figli dei fiori’ non vi era certo la condivisione dell’etica protestante del capitalismo.
Chiusa la vicenda del recupero a sinistra del mito del buon selvaggio (anche se esistono gruppi che si rifanno culturalmente e politicamente al modello preindustriale e preurbano, supposto egualitario, delle società neolitiche in reazione del modello dominate dell’impero e delle metropoli: proiezione uguale e contraria che si percepisce anche nei nostri neo-nazionalismi), arriviamo ad una nuova attualizzazione del messaggio di Robinson Crusoe come espresso negli ultimi anni dal più o meno edificante sistema del Reality Show.
Nei meccanismi di accumulazione degli utili della Società dello Spettacolo si rintraccia qualche aderenza a Defoe ed ai suoi modelli nell’apparire ‘selvaggi’ e ‘resistenti’, entro una vacanza ben pagata. Non basta a certificarne la conferma dell’uso borghese. Di fronte ad un problema più generale di assenza di fisicità, emerge la sete di prove e dimostrazioni fisiche, un’utopia ottenebrata, perduta, negata.
Pochi (anche se non pochissimi) ricorrono ai cosiddetti ‘sport estremi’ o a frammenti di vacanze estreme. Qualcuno va in palestra, però molti guardano gli altri davanti alla televisione e alle robinsonate. Ovvio che l’uso proposto dal Reality serve a dare l’idea che la naturalità sia possibile disinnescandola, depotenziando le sue vere, reali possibilità eversive. Tutto si addomestica e appare, niente è.
Ma mentre Crusoe rispondeva ad una situazione ed un’esigenza realmente progressiva, pur nella celebrazione ideologica di una supposta naturalità dell’ideologia liberista, oggi i suoi frammenti lanciano nello spazio scenico la metafora del luogo esclusivo e della conservazione del potere (o del recupero di qualche suo elemento perduto), utile a produrre denaro e ideologia. C’è per tutti un’isola di famosi, una fattoria preindustriale, qualche accenno di selvaggio, opportunamente addomesticato, nelle esclusive ville costiere, magari come travestimento sado-maso per dimostrare comunque la nostra superiore civiltà. O un Venerdì che diventa impresa per venderci ancora un po’.
Vuoi mettere la trasparente enunciazione dei principi fatta da Robinson?: “Raggiunsi il Brasile, donde mandai loro (ai coloni, ndr) un battello (…) con altra gente destinata a popolare l’isola. Su questa nave, oltre a scorte di vario genere imbarcai sette donne, scelte a mio piacimento in qualità di serve o eventualmente di mogli per chi le desiderasse.”
8 Agosto 2011 alle 10:05
Tra gli automatismi, anche narrativi, già automaticamente attivi ai tempi di De Foe, c’è, fondamentale, questo: salvato da Robinson, Venerdì diventa servo di Robinson. Se fosse accaduto il contrario, la mente di De Foe e dei suoi lettori non avrebbe potuto concepire un Robinson che diventi servo di Venerdì, e nemmeno che Robinson e Venerdì si comportino da pari. Questo è per me il punto focale, nodale, di tutta la storia di Robinson Crusoe, e soprattutto della concezione del mondo e dell’umanità di allora, a due secoli dalla scoperta dell’America, che dura ancora oggi. Nel nostro piccolo, così è anche per la Sardegna, isola selvaggia con i suoi venerdì e i suoi berluscini e briatori.
10 Agosto 2011 alle 12:45
E’ il razzismo della sua epoca storica, più edulcorato perché in rapporto uno a uno e comunque partecipe di un contesto complesso e articolato.. Certo, pensare Venerdì alla pari di Robinson o addirittura i ruoli invertiti fa parte di una visione che maturerà centocinquant’anni dopo (e duecento con la rivoluzione d’Ottobre).
Cosa ci resta oggi di tutto ciò? Non la stessa ambientazione (qualcosa è pure cambiato!!) ma lacerti, schegge, frammenti significativi, come i berlusconi e i briatori ed i nostri venerdì etnici.
O Venerdì talora al femminile, con nuovi Robinson civilizzatori. Che talora cercano di giocare – entro la società dello spettacolo – la redistribuzione dei ruoli, e anche quella degli utili perché no, su un piano diverso, come la cameriera del compagno Strauss-Khan.