A Cagliari, al capolinea del 9, in una sera d’estate
1 Novembre 2019[Giovanni Graziano Manca]
Lo incontriamo al capolinea del 9, io e Stefano. Alto, i capelli sale e pepe, ordinato, distinto; è tunisino e come noi abita a Cagliari, lui da quarant’anni, una vita intera.
E’ sposato con una sarda che, dice, “fa un cous cous senza le spezie, saporitissimo, leggero”. Uno dei suoi figli, il più piccolo, ha 23 anni. E’ angustiato, mi dice, dagli episodi di intolleranza, ma certo non lesina le critiche nei confronti dei nordafricani che, sbarcati con mezzi di fortuna nelle coste italiane, sebbene siano stati accolti e il più delle volte fatti oggetto della solidarietà tipica di molta della nostra gente, “sputano ogni giorno nel piatto dove hanno appena mangiato”.
Parla un discreto italiano cui aggiunge spesso alcuni degli intercalari più tipici della nostra città. Anch’essi danno la misura di quanto positivamente quest’uomo sia riuscito a inserirsi nella società cagliaritana. Non sappiamo quale sia il suo nome, non abbiamo il tempo di chiederglielo. Con lui affrontiamo apertamente argomenti diversi: degli edifici preesistenti nell’area in cui attualmente sorge l’orribile palazzo del Consiglio regionale della Sardegna, che la guerra aveva distrutto, e anche della Tunisia, sua terra d’origine, dove egli ha vissuto per diciotto anni prima di arrivare in Sardegna.
Parliamo di Matmata, il villaggio di origine berbera alle porte del deserto dove si trovano le famose case, modelli di architettura troglodita scavati nel terreno, all’interno delle quali la temperatura, sia in estate che in inverno, si mantiene ottimale, e di El Djem, cittadina che ospita uno splendido anfiteatro romano.
E’ qui che si infervora e che mostra tutto il suo amore per i luoghi che lo hanno visto nascere e crescere (questo particolare aspetto della natura umana, insieme al sentimento nostalgico, è comune a tutti gli uomini, a qualsiasi latitudine!). Parliamo anche di altro, più che altro dei problemi quotidiani che al giorno d’oggi, talvolta con un po’ di preoccupazione, tutti sperimentiamo.
Certo l’impressione positiva che ho avuto di quest’uomo perfettamente integrato che condivide con franchezza le sue esperienze (Stefano infine ha commentato: “E’ sardo, sardo come noi!”) è rimasta. Valgano, queste brevi impressioni, questa storia minima, a ricordare che anche in questi tempi di odio, di fascismi che strisciano e di pregiudizio diffuso nei confronti degli stranieri (soprattutto di quelli extracomunitari), i valori del dialogo e del rispetto per l’altro vanno sempre tenuti alti.