A casa di Anna
16 Settembre 2007Manuela Scroccu
La conversazione con Anna comincia con una domanda banale, la mia: “Cosa significa per te integrazione a Cagliari?”. E una risposta intelligente, la sua: “guardati intorno, guarda questa casa, sono in Italia da sette anni e questo è il meglio che sono riuscita a trovare”.
La “casa” è una grande stanza buia e umida, ad altezza della strada, con un piccolo bagno (una delle tante agenzie immobiliari sorte a Cagliari negli ultimi anni la presenterebbe forse così: monolocale caratteristico in quartiere storico, accessoriato). Qui torna Anna dopo il lavoro, regolare e qualificato; qui cresce la sua bambina di otto anni, che non può invitare i suoi compagni di scuola a fare i compiti perché non c’è spazio.
“Ti racconto una cosa ma non ci crederai, tutte le mie amiche italiane non riescono a credere che sia vero”. La verità “incredibile” di Anna è che, per un extracomunitario, soprattutto se di origine africana, è praticamente impossibile trovare una abitazione decente in un quartiere decente. Anche se è regolare, anche se può permettersi l’affitto.
Anna ci prova da cinque anni. Raggiunta una certa tranquillità economica con un buon posto di lavoro, pensava di potersi finalmente permettere di abbandonare quel seminterrato che le aveva, è vero, assicurato un tetto sulla testa nei primi tempi di permanenza in città ma che ora, nonostante i tentativi di renderlo accogliente, non era più adatto alle esigenze sue e di sua figlia.
Non era per questo che era andata via dalla Nigeria? Per avere una vita migliore, per dare un futuro ai suoi figli? Non è per questo che i migranti di tutto il mondo e di tutti i tempi lasciano i loro paesi?
“Proprio l’altro giorno sembrava fatta, ero riuscita a trovare una casa migliore, senza umidità, con la possibilità di avere la cameretta per mia figlia, avevamo anche già concordato il prezzo, 350 euro, ma appena la moglie del proprietario ha saputo che sono nigeriana, è spuntato fuori un parente a cui avevano promesso la casa. Alla fine hanno dovuto ammettere che non si fidavano, perché…tu affitti a un extracomunitario e poi te ne arrivano venti”. È sempre la solita storia, la casa da libera si trasforma in già affittata non appena diventa evidente la nazionalità: “Possiamo aspirare soltanto ai buchi che non vuole nessuno”. Anna pronuncia quella parola che noi non pronunciamo mai, perché pensiamo che certe cose riguardino solo Calderoli e il profondo Nord: razzismo. “Il colore della pelle conta, se sei una donna nera, poi, devi essere per forza una prostituta. Se questo non è razzismo che cosa è?” Gli sguardi della gente mentre fai la spesa, la signora che vuole passare prima di te dal medico nonostante sia il tuo turno, alcuni tuoi colleghi di lavoro che non sopportano di lavorare sotto la direzione di una donna nigeriana che gli vuole dire come devono lavorare: “non potrai mai capire, non potrai mai sapere cosa si prova, ma la ragione è una sola”. Anna mi indica la sua pelle: “Se sei extracomunitario, se sei nero, vieni dopo tutti gli altri”. Anche se lavori, anche se sei regolare. “È come se, arrivata a questo punto della mia vita, mi dicessero ora basta, non puoi avere più di così, non puoi chiedere di più. Quando per errore non mi volevano riconoscere gli assegni familiari per mia figlia, mi sono arrabbiata. Dicevo, ma è un mio diritto, me lo sono guadagnata, mi spetta. Quando sono andata al Comune per la casa e mi hanno dato un buono per del sugo in scatola, mi sono arrabbiata. Perché, cosa c’entra il cibo? Io sono qui per la casa. Volevo sapere perché non mi davano la casa se avevo tutti requisiti previsti dalla legge. Il funzionario non capiva cosa io non capissi”.
“È difficile cambiare le cose: devi entrare nella testa della gente. Ci sono alcuni che pensano che l’Africa sia un posto dove tutti vivono nelle capanne e non c’è la corrente elettrica Non sanno niente di noi. A volte incontro delle signore che guardano me e mia figlia e dicono poverine, voi non avete niente. Ma perché… noi non siamo poverine! Non riescono a credere che io possa provvedere alla mia bambina. Mia figlia non ha bisogno di compassione, soltanto delle stesse opportunità di tutti gli altri”.
Anna usa spesso, durante la nostra conversazione, l’aggettivo “arrabbiata”: la rabbia che si prova di fronte all’ingiustizia di vedersi negato un proprio diritto senza spiegazioni, o peggio, di vederselo “elargito” come benevola concessione. L’immigrato buono è quello remissivo, terrorizzato (dalla possibilità di venire espulso, oppure di perdere il lavoro) e riconoscente ad un paese che gli permette molto generosamente di fare i lavori più umili e di abitare le case più cadenti. Un immigrato, perennemente tale anche se ormai italiano di fatto se non ancora per cittadinanza, non deve arrabbiarsi altrimenti diventa irriconoscente. Non deve pronunciare frasi come “questo è un mio diritto”. Questo mi dice Anna: non ti perdonano il fatto di lottare per il riconoscimento dei tuoi diritti, perchè ti è richiesto di chinare il capo e ringraziare di essere qui.
La forza e la semplicità con cui la mia interlocutrice pronuncia la frase “è un mio diritto”, mi fa pensare che sia questo il motivo per cui alcuni considerano gli immigrati un pericolo. Forse perché ci potrebbero ricordare, dopo anni di bombardamento mediatico contro lo stato sociale, che la casa è un diritto, l’assistenza sanitaria è un diritto, il lavoro deve essere salvaguardato e tutelato?
Mentre parliamo la figlia di Anna guarda i cartoni animati e mangia fette biscottate al burro. Ogni tanto ci lancia qualche occhiata curiosa. La madre mi racconta una cosa: “Mia figlia è nata qui, se glielo chiedi lei dice di essere afroitaliana. L’altro giorno una signora le ha chiesto: di dove sei? Lei ha risposto nigeriana. L’ho presa da parte e le ho chiesto come mai avesse detto così. Lei mi ha spiegato che non le era piaciuto il tono con cui la signora le aveva fatto la domanda. L’aveva fatta sentire diversa, per cui aveva detto di essere nigeriana. Lei capisce tutto”.
Ho pensato tre cose: la prima è che la parola afroitaliana è bellissima; la seconda è che i bambini sono meglio di mille trattati di sociologia; la terza è che il futuro di questo paese sarà determinato anche dalla risposta che la figlia di Anna deciderà di dare alla domanda: “di dove sei?”.