A ciascun seme il suo terreno
1 Luglio 2013Cristina Ibba
Il 25 maggio in 436 città di 52 paesi si è tenuta Occupy Monsanto una manifestazione di protesta contro la Monsanto, la nota multinazionale di biotecnologie agrarie impegnata principalmente nella produzione di sementi transgeniche, e dal marzo 2005, dopo l’acquisizione della Seminis Inc, anche il maggior produttore mondiale di sementi tradizionali. Con questa manifestazione gli organizzatori hanno voluto mettere in luce l’innaturale alchimia tra agricoltura e industria chimica. Le ricerche hanno dimostrato che gli alimenti geneticamente modificati possono portare a gravi condizioni di salute, a sviluppare tumori, infertilità e difetti di nascita. Negli Stati Uniti, la FDA, l’agenzia con il compito di garantire la sicurezza alimentare della popolazione, è guidata da dirigenti ex-Monsanto, quindi c’è un discutibile conflitto d’interessi e tutto ciò spiega la mancanza di ricerca da parte del governo sugli effetti dei prodotti OGM e la conseguente mancanza di trasparenza nelle etichette dei prodotti transgenici.
Questo sembrerebbe un problema americano, o argentino oppure indiano, ovvero di quei paesi dove le monocolture di grano, soia e cotone della Monsanto hanno distrutto la vita di migliaia di contadini e delle loro famiglie. Ma vediamo cosa succede in casa nostra, nella nostra vecchia Europa o meglio nel Bel Paese che vanta una della migliori cucine sia in termini di varietà che di qualità degli alimenti.
Lo scorso 21 maggio si è approvata, con voto unanime al senato, una mozione che impegna il governo a legiferare contro la coltivazione di organismi geneticamente modificati nelle nostre campagne. La ministra De Girolamo si è mostrata estremamente soddisfatta e ha dichiarato che il nostro paese può vincere solo puntando sulla qualità, sulla tipicità e sulla valorizzazione delle nostre culture regionali. Belle parole queste della ministra, che però forse non ricorda che dal 1998 una direttiva comunitaria regola la commercializzazione e lo scambio di sementi, stabilendo che debbano essere riservati esclusivamente alle compagnie semenziere, e non agli agricoltori.
Nel luglio del 2012 , la Corte di Giustizia Europea ha rimarcato la questione con una sentenza nella quale si impone il divieto assoluto di commercializzare le sementi delle varietà tradizionali e diversificate che non siano iscritte nel catalogo ufficiale europeo. La proposta di legge del 6 maggio scorso, denominata Plant Reproductive Material Low, ribadisce l’obbligatorietà di commercializzazione, coltivazione e riproduzione di semi e ortaggi omologati agli standard stabiliti da un ente europeo ad hoc, l’Agenzia delle varietà vegetali europee.
Queste leggi stroncano i produttori di varietà regionali, i coltivatori di prodotti biologici, e gli agricoltori che operano su piccola scala. Questa mossa è la soluzione finale della Monsanto, della DuPont e delle altre multinazionali dei semi, che da tempo hanno come loro obiettivo il dominio di tutti i semi e le coltivazioni del pianeta. In questa maniera l’Europa consegna il pieno controllo della catena alimentare nelle mani di corporazioni potenti come la Monsanto. Inoltre la tassa che i contadini europei dovranno pagare per registrare i semi non è altro che un modo per scoraggiare i piccoli produttori che non potranno sostenere tutte le spese burocratiche per la registrazione della denominazione di varietà, per controlli, analisi, esami e richieste.
Chi ha il potere di controllare il seme ha il potere di controllare cosa possiamo o dobbiamo mangiare quindi “fa” il mercato: un concetto molto semplice e di per sè sufficiente a spiegare l’aggressività con cui le multinazionali semenziere hanno voluto e ottenuto il monopolio su questo bene indispensabile per la vita e le comunità.
Una varietà può essere iscritta nel catalogo e quindi si possono commercializzare le sue sementi solo se corrisponde ai criteri di distinzione, uniformità e stabilità, pensati per garantire l’alta resa che serve al mercato agroalimentare industriale; se invece una varietà non è iscritta nel catalogo le sue sementi non possono essere vendute. Insomma la normativa si è trasformata in uno strumento di espulsione della biodiversità dalle campagne nonché di controllo e repressione del mercato semenziero. Quest’ultimo, in funzione di una proprietà intellettuale (brevetti) sempre più esasperata, è finito nelle mani di poche ditte a livello mondiale.
Monocolture, fertilizzanti, pesticidi, lunghi viaggi refrigerati, brevetti sui semi, contadini semi-schiavi, l’agricoltura cosiddetta moderna applica un modello produttivo industriale ad alto impatto ambientale e sociale, che minaccia le basi delle pratiche agricole tradizionali, erodendo i saperi millenari degli agricoltori e la biodiversità coltivata.
L’industrializzazione del sistema agricolo ha più a che fare con gli interessi del mondo del petrolio, della chimica e della finanza che con il diritto alla sicurezza e alla sovranità alimentare delle comunità e dei popoli.
Il mercato agricolo è sempre più dipendente dal sistema di trasformazione e distribuzione su larga scala del cibo e dalle fluttuazioni dei mercati finanziari.
Ma come si può reagire di fronte a vincoli legislativi che limitano così pesantemente l’esercizio di una delle attività più antiche dell’essere umano? Beh non ci si arrende. La collocazione di sementi senza transazione monetaria, o comunque senza profitto attuale o previsto, intesa invece come forma di dono unilaterale o in reciprocità, anche se contraccambiato, non ha alcuna delle caratteristiche che per legge prefigurano l’esistenza di un rapporto o di un fine di sfruttamento commerciale. Va anche detto che dono e scambio non commerciale non sono limitati dal nostro ordinamento giuridico e la circolazione tra contadini delle sementi di varietà tramandate, così come la consegna di generazione in generazione, sono pratiche di sussistenza appartenenti a un ambito originario e fondante del diritto.
Anche nel nostro paese un modello alternativo di agricoltura è possibile ed è già in atto: agricoltura di piccola scala, stagionalità dei prodotti, mercati locali e ricerca partecipata riportano al centro la terra, l’agricoltore , il consumatore.
Un elemento fondamentale di questa alternativa è legata ai semi; la legge italiana che regolamenta questo settore è ancora incompleta. Gli agricoltori italiani aspettano un decreto ministeriale che regolamenti il loro diritto al commercio di semi di varietà da conservazione. Si tratta di varietà locali, spesso periferiche rispetto al mercato agroalimentare, ma fondamentali per le loro quantità organolettiche e il loro valore culturale. Il diritto alla vendita delle varietà da conservare garantisce agli agricoltori il miglioramento e la differenziazione delle loro coltivazioni e a tutti i cittadini la tutela del bene comune della biodiversità agricola che è alla base del diritto ad una alimentazione sana e libera.