A scuola di repressione
16 Dicembre 2015Nicole Argenziana
Quando pensiamo alla storia la immaginiamo come una linea retta che va sempre avanti. Eppure la si può considerare più un cerchio che una linea e gli eventi molto spesso si ripetono più o meno identici. Pare così anche per le ribellioni palestinesi o Intifade che ricorrono quasi a scadenza decennale.
Chiunque guardi con stupore alla nuove proteste nei Territori Occupati Palestinesi non ha ben chiara la situazione sul campo. I ribelli rispetto alle Intifade passate sono diversi ma ciò che resta praticamente identica è la posizione di Israele e il suo atteggiamento nei confronti della rivolta. Il governo di coalizione di Netanyahu la considera come un’ondata di terrore (più che un’Intifada) che deve essere soppressa. Nonostante i precedenti storici dimostrino che la forza bruta non fermerà i palestinesi, la repressione durissima denota un eccessivo uso della violenza da parte dell’esercito. Dall’inizio degli scontri circa novemila palestinesi sono stati feriti, più di mille sono stati arrestati tra cui 156 bambini e i morti sono 119 di cui 26 minori. Alle manifestazioni viene usata una quantità eccessiva di gas lacrimogeno e di proiettili di gomma non meno letali di quelli veri. Inoltre i militari e il governo hanno attuato una serie di misure simili a delle punizioni collettive e nessuno aspetto della vita quotidiana è trascurato.
Ospedali, scuole, università, niente sembra essere al sicuro. All’università di Tulkarem, ad esempio, è stato proibito di costruire un muro protettivo per difendere gli studenti, quotidianamente sconvolti dagli scontri e dai raid dell’esercito nel campus. Solo venerdì scorso sono stati feriti nove studenti da colpi di arma da fuoco. O ancora l’agenzia di stampa Maan riporta che all’alba di sabato 12 dicembre 2015 una clinica medica di Betlemme è stata presa di mira dall’esercito e le attrezzature mediche sono state confiscate. A ciò si aggiungono i raid nei campi profughi che mietono costantemente delle vittime, l’ultimo di una lunga serie è Malik Akram Shahin (19), di Dheisheh, a cui è stato fracassato il cranio da una pallottola ‘’dum dum’’ (un proiettile che una volta penetrato nel corpo si apre espandendosi). Inoltre la demolizione della case e la chiusura di intere città dal resto del mondo sono oramai routine, tanto che il Gabinetto di Sicurezza israeliano ha dato carta bianca all’esercito che può a sua discrezione sigillare i villaggi della Cisgiordania occupata per cercare eventuali terroristi (Tulkarem è isolata dal resto del territorio da oramai tre giorni e prima di questa Hebron).
Qualora la storia si dovesse ripetere gli scenari che Israele potrebbe prendere in considerazione per sedare la ribellione potrebbero essere inquietanti. La repressione militare e l’uso della forza potrebbero innalzarsi al livello successivo e non è da escludere nemmeno che l’asse militare possa deviare verso Gaza con una serie di bombardamenti. Le scuse non mancano di certo dato che ora la lotta al terrorismo è più di moda che mai e Hamas è sempre stato considerato da Israele come un partito terrorista. L’Autorità Palestinese d’altro canto ha dichiarato che la sua stessa sopravvivenza nel contesto politico attuale è molto a rischio.
Ciò dimostra tutta la debolezza di tale leadership che (anche volendo) non è in grado di controllare la ribellione e ciò è dovuto all’ambiguità con la quale si è posta nei confronti dei giovani combattenti palestinesi. In questa difficile situazione per la Palestina l’unica cosa certa è che Israele non intende fermare le atrocità perpetrate nei confronti della popolazione. L’attuale governo di Tel Aviv sembra non comprendere che la violenza e la repressione non hanno funzionato in precedenza e non funzioneranno neanche ora e semmai esasperano ancora di più un popolo da troppi anni stremato e stanco. Più che risposte militari servono risposte politiche che riconoscano i diritti della nazione palestinese e pongano fine all’occupazione. Comportarsi come la più feroce delle nazioni coloniali finora non ha portato a nulla se non alimentare una spirale di terrore sia sui cittadini israeliani che sui palestinesi i quali rispondono come possono ai crimini di cui sono vittime.
Foto di Francesca Corona