Alcoa, c’è molto poco da fare
1 Febbraio 2010Bruno Caria*
(Parte dell’articolo riprende “Il Progetto Karahnjukar” pubblicato nel 2006 da Paolo Cortini sul sito http://www.90est.it/). L’estate scorsa sono stato in vacanza in Islanda ed ho scoperto in anteprima la causa della disperazione in questi giorni di molti lavoratori sardi. Davvero esiste un filo conduttore che lega Sardegna e Islanda, due isole così lontane e diverse tra loro? Ebbene si. Ma andiamo per ordine. L’Islanda è un’isola bellissima dagli scenari apocalittici ricca di geyser, vulcani, deserti di lava, soffioni solforosi, pozze di fango in ebollizione e decine di piccoli crateri spenti che emergono dalle acque dei laghi e dei ghiacciai. Per essere più precisi, sto parlando di 200 vulcani, 250 aree geotermiche, 780 sorgenti calde, centinaia di potenti cascate e la terza calotta glaciale più grande al mondo. In Islanda Jules Verne nel 1864 fece iniziare il suo celebre romanzo “Viaggio al centro della Terra”. Qui c’è anche la celebre Laguna Blu, un grande bacino formato dalle acque calde (fino a 70 gradi) che emergono dal sottosuolo e che hanno consentito la realizzazione della grande centrale geotermica di Svartsengi, che fornisce energia all’intera città di Reykjavik e alla regione circostante. Nell’anno 874, quando il vichingo Ingolfur Arnarson, in fuga dalla Norvegia (dove aveva qualche problemino con la giustizia), scoprì la Terra dei Ghiacci, approdò in una baia dove il vapore usciva naturalmente dal terreno. Così i suoi uomini la chiamarono subito Reykjavik, la Baia del Fumo. La misteriosa energia delle sorgenti termali attorno a quella che sarebbe diventata la capitale, è diventata oggi una delle grandi ricchezze dell’Islanda. Imbrigliato dalla tecnologia, l’inferno delle solfatare è diventato il paradiso della geotermia, una delle forme più efficienti e pulite di energia alternativa. Fornisce un riscaldamento ecologico a basso costo al 95% delle abitazioni dell’Isola e il suo potenziale economico è valutato ancora 20 volte superiore a quello realmente sfruttato. A beneficiare di tutta questa energia sono appena 250.000 persone, l’attuale popolazione dell’Islanda, distribuite in un territorio grande come un terzo dell’Italia. Gli impianti modernissimi e a basso impatto ambientale anche dal punto di vista estetico, sono un concentrato di tecnologia in grado di garantire un rifornimento pressoché illimitato anche in vista delle esigenze future del Paese. E per i residenti più lontani dalle centrali geotermiche non c’è alcun problema, perché basta fare un buco nel terreno per trovare a pochi metri di profondità la propria personale fonte di energia a costo zero. Il petrolio, in Islanda, viene usato solo per far andare auto e barche. Le industrie geotermiche, oltre a riscaldare le case, sfruttano il calore terrestre anche per produrre energia elettrica e far funzionare le macchine delle industrie. L’energia geotermica è inoltre una fonte rinnovabile e sostenibile (le sue emissioni sono ridotte di 35 volte rispetto ad un impianto normale). I costi sono ottimi: per 1 megawatt di elettricità con le centrali geotermiche si spendono all’incirca 2 dollari. Molto meno di quella eolica (il vento qui non sempre soffia), solare (la notte da queste parti dura anche sei mesi e il sole te lo sogni), nucleare (costi di realizzazione delle centrali troppo alti, impatto ambientale, smaltimento delle scorie, ecc.). All’interno di una centrale si preleva acqua e vapore dal terreno a temperature di 240 gradi, che attraverso turbine vengono trasformate in energia. Dalla centrale escono altri tubi che arrivano a case, industrie e serre. Una centrale come questa può costare 5 milioni di dollari e ci lavorano 15-20 persone al massimo, gli incidenti non si sa cosa siano. Sono state realizzate complessivamente 5 centrali geotermiche. Dunque possiamo dire che l’Islanda dal punto di vista energetico è completamente autosufficiente. Aggiungiamoci che la disoccupazione, visti i pochi abitanti, praticamente non esiste, e abbiamo completato il quadro di un Paese che potrebbe essere a buon titolo considerato come un paradiso terrestre. Questa era la parte bella di questo articolo. Ora passiamo a quella brutta. Per ovviare alla crisi economica che ha pesantemente colpito l’Islanda negli ultimi anni e all’inflazione galoppante, il governo islandese ha preso una serie di controverse decisioni. L’idea è quella di attirare multinazionali che delocalizzino sul territorio la produzione industriale sfruttando l’energia a basso costo e i vasti spazi a disposizione (l’Islanda ha solo 3 abitanti per km quadrato). Inoltre ha semplificato il sistema fiscale parificando le società straniere con quelle nazionali. Per realizzare questo progetto agli islandesi non basta più l’energia geotermica che hanno a disposizione ma devono produrne di più, molta di più. Così all’Isor, l’ente di ricerca geotermica che collabora con le Nazioni Unite, dal 2000 sono al lavoro su un progetto ambizioso, il Deep Drilling Project. Scavare molto più in profondità e arrivare a 4500 metri, 5000 se possibile, e giungere agli stessi livelli di energia del nucleare. Per farlo hanno speso senza batter ciglio 20 milioni di dollari. Si scopre così che l’Islanda, i suoi governi passati e quello attuale, così attenti pubblicamente alla salvaguardia dell’ambiente e all’ecologia, stanno invece attuando da almeno dieci anni politiche dal punto di vista dell’impatto ambientale, a dir poco devastanti. Si è in particolare privilegiato un settore industriale, quello della produzione dell’alluminio (di cui l’Islanda non ha affatto bisogno) per logiche che appaiono assai poco chiare. Il settore industriale infatti incide per l’8% sul PIL e solo per 1% sull’occupazione, ma il governo islandese ha firmato un impegno con le banche internazionali di 1,3 miliardi di dollari per triplicare la produzione dell’alluminio. Così sono state fatte “carte false” (in senso letterale) per approvare un progetto, detto di Kárahnjúkar (dal nome dell’area, vero paradiso terrestre, che si è deciso di sacrificare sull’altare dell’industrializzazione), per costruire una mega-centrale idroelettrica che regalerà l’energia elettrica ad un’industria di produzione dell’alluminio. In pratica, per attrarre delle nuove industrie che non servono al Paese, si dovrà produrre più energia distruggendo il vero patrimonio dell’Islanda: la natura. Kolfinna, una battagliera ambientalista locale nonché ottima guida turistica, mi ha portato a vedere questa nuova industria e a momenti svenivo. L’industria in questione era (anzi è) l’ALCOA.
E così ho saputo, otto mesi prima degli operai di Portovesme che in questi giorni stanno battendosi per cercare di mantenere il loro posto di lavoro in Sardegna, che l’ALCOA avrebbe chiuso le proprie fabbriche in Italia per trasferirsi in Islanda dove le condizioni economiche per la produzione dell’alluminio erano diventate più favorevoli. Kolfinna mi ha raccontato la storia di questo scempio ambientale ed umano. La compagnia energetica islandese, la Landsvirkjun, aveva studiato la possibilità di installare un complesso industriale sulla costa orientale dell’isola utilizzando l’energia idroelettrica prodotta sfruttando gli emissari del ghiacciaio Vatnajökull. Il progetto venne pianificato già alla fine degli anni novanta in collaborazione con la Norsk Hydro, multinazionale norvegese dell’alluminio. Il progetto prevedeva la costruzione di un fonderia presso Rejdarfjordur e di una grande centrale idroelettrica capace di alimentarla. Nell’agosto 2001 l’Agenzia Nazionale per la Pianificazione, organismo indipendente incaricato di valutare lo studio di impatto ambientale presentato dalla Landsvrkjum, dichiara che “non esiste prova che i vantaggi economici derivanti dalla realizzazione del progetto compensino i sostanziali, irreversibili, negativi effetti sull’ambiente”. Nonostante questo responso il Ministro per l’Ambiente, fra le proteste di almeno metà dell’opinione pubblica, di numerosi esponenti del mondo accademico e di tutte le associazioni ambientaliste, approva il progetto alla fine di dicembre 2001. Improvvisamente, senza alcuna apparente spiegazione, nel marzo del 2002 la Norsk Hydro decide di ritirarsi dall’operazione per una “rivalutazione della propria strategia”. A questo punto entra in gioco l’americana ALCOA, colosso mondiale dell’alluminio, in cerca di opportunità per abbattere i costi di produzione e compensare così la chiusura di alcuni stabilimenti negli Stati Uniti. Nel giugno 2002 ALCOA e Landsvirkjun raggiungono un accordo per lo studio del progetto e il 15 marzo 2003, con il Governo islandese, firmano il contratto. Il progetto prevede la costruzione di una fonderia da 320.000 tonnellate annue di alluminio e di una centrale idroelettrica da 690 MW. L’acqua necessaria alla centrale sarà prelevata da tre laghi artificiali ottenuti sbarrando il corso dei torrenti che attraversano la regione. Saranno necessarie nove dighe in terra. La sola Kárahnjúkastífla Dam sul fiume Jokulsá á Dal, con i suoi 193 metri di altezza, 730 metri di lunghezza ed un volume approssimativo di 8,5 milioni di metri cubi, sarà la più grande diga in terra d’Europa. L’acqua dei tre laghi, posti ad est e ad ovest del vulcano Snaefell, sarà portata alla centrale attraverso settanta chilometri di tunnel sotterranei scavati con macchine TBM. L’ALCOA si impegna a finanziare due terzi delle nuove strade, ponti e infrastrutture necessari alla realizzazione del progetto. La Landsvirkjun venderà interamente all’ALCOA l’energia elettrica prodotta dalla centrale ad un prezzo estremamente basso che comunque potrà oscillare in funzione delle variazioni del prezzo di mercato dell’alluminio. Essendo la Landsvirkjun un ente statale significa che se il valore dell’alluminio dovesse scendere gli unici a pagare sarebbero gli islandesi. Il governo gioisce attraverso una martellante campagna pubblicitaria, ma non tutti appaiono però così entusiasti. Nel 2001, infatti, l’Islanda è riuscita ad ottenere un’esenzione dai vincoli del Protocollo di Kyoto. Come conseguenza il nuovo stabilimento di Reyðarfjörður potrà emettere in atmosfera 12 chilogrammi di anidride solforosa per tonnellata di alluminio prodotta, contro gli 0,455 chilogrammi dello stabilimento progettato a suo tempo dalla Norsk Hydro per il quale era stata scelta una tecnologia produttiva molto meno inquinante. Su base annua significa 3.900 tonnellate di anidride solforosa emessa contro le 190 dello stabilimento della Norsk Hydro! Alcuni grandi finanziatori, fra cui la Banca Europea per gli Investimenti, decidono di non concedere alcun sostegno economico al progetto, che complessivamente sconvolgerà gli equilibri di una regione vasta 3000 chilometri quadrati, pari al 3% del territorio nazionale. Una volta a regime la fonderia darà lavoro stabile a circa 700 persone, compreso l’indotto. Visto che la zona è completamente disabitata gli operai dovranno vivere tutto l’anno all’interno dell’area industriale. Dove, visto che non ci sono case per migliaia di chilometri intorno alla fabbrica? Ci ha pensato l’ALCOA che ha già realizzato un villaggio di containers per ospitare gli operai e le loro rispettive famiglie. Si tratta di una vera e propria città, per la precisione la terza città dell’Islanda. Completamente autosufficiente e dotata di tutto, gli operai guadagnano e spendono il proprio stipendio all’interno degli spacci, dei negozi e dei bar gestiti dalla stessa ALCOA. Né più e né meno di quanto accadeva in Sardegna nel secolo scorso nelle aree minerarie gestite dalle grandi compagnie straniere. Con un’unica differenza: da noi la manodopera era interamente locale, erano sardi che lavoravano nella propria terra. In Islanda, dove buon per loro, la disoccupazione praticamente non esiste, all’ALCOA lavorano solo portoghesi, cinesi e polacchi, assunti con remunerazioni economiche enormemente più modeste degli alti stipendi islandesi. Qualcosa di molto simile avviene anche per la costruzione delle dighe. Gli appalti più consistenti sono stati vinti da imprese straniere, fra cui l’italiana Impregilo, che utilizzano prevalentemente operai stranieri a basso costo (soprattutto dell’est europeo). L’Impregilo sta realizzando la più grande delle nove dighe e i tunnel sotterranei per complessivi 500 milioni di euro, circa la metà del valore dell’intero investimento a carico della Landsvirkjun. In contrasto con le aspettative iniziali, gli islandesi impegnati nel progetto rappresentano una sparuta minoranza. Ecco perché il nuovo alluminio islandese sarà economicamente più vantaggioso di quello italiano. Con investimenti iniziali partecipati, energia elettrica a basso costo, forti defiscalizzazioni, tecnologie vetuste e salari da terzo mondo è possibile produrre alluminio competitivo anche nella ricca Europa del Nord. Si chiama globalizzazione. Intanto gli operai sardi, ignari di quanto avviene in un’altra isola assai lontana da loro, rischiano di perdere i propri posti di lavoro, con la complicità miope dell’ENEL e del governo italiano. Auguri di cuore a tutti loro, ma se ciò che ho raccontato è vero (e purtroppo è vero!) per loro la vedo male, molto male.
*Amici della Terra
1 Febbraio 2010 alle 11:49
Inutile nasconderlo, sapevamo già dagli albori, che queste fabbriche sarebbero diventate anti-economiche. Dal punto di vista ambientale il Sulcis-Iglesiente ha subìto un aggressione apocalittica, vent’anni fa, quando in qualità di segretario CSS, iniziammo a capire cosa stesse succedendo, insieme a Porto Scuso 2000 e ASBEO, era già una situazione tragica!! I pascoli, le colture, attraverso studi e analisi dell’Università di Sassari, le ricerche sulla popolazione da parte dei proff.ri Biddau e Lilliu, le morti in fabbrica dovute ad alta concentrazione di sostanze cancerogene, fece si che questo coordinamento ottenne il riconoscimento della Zona ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale. I lavoratori morivano ad una età media di quarant’anni, ma per CGIL, CISL e UIL, colluse con le aziende ciò non era vero! Nostra fu la proposta di una legge legata alla dinamica dei minatori sulle marche pesanti, che permettesse di avere un ricambio nelle fabbriche, ahimè, uno dei grandi oppositori fu l’attuale sindaco di Carbonia! I lavoratori dell’Eurallumina, furono quelli che si estraniarono dalle lotte, perchè forti di un contratto chimico, snobbavano anchi i minatori della Carbosulcis e di altre realtà produttive, una sorta di èlite della classe operaia! Politici di diverso colore che hanno pensato solo ed esclusivamente alla loro carriera, lasciando i lavoratori privi di valori e riferimenti! Lavoro a scanso della salute, portatore di tessere a partiti e sindacati!
1 Febbraio 2010 alle 20:00
La questione Alcoa sembra davvero con poche speranze. Ma la classe operaia non dovrebbe scordare la sua storica capacità di combattere anche quando le speranze sembrano poche. Oggi i limiti dello sviluppo industriale per poli sembrano ancora più evidenti: l’economia sostenibile è una delle possibilità, ma a suo tempo furono in molti a non vederla, sia la sinistra tradizionale sia il movimento anticolonialista, e anche ciò stiamo pagando. Non dimentichiamo neppure che la vicenda – il pezzo di Carìa lo illustra egregiamente – riporta ai limiti del capitalismo, che si sono storicamente e se vogliamo in parte inevitabilmente riflessi a sinistra. E’ un sistema che non dà, se non ai padroni, vie d’uscita occupazionali (penso che continui a lavorare sul vecchio ‘sano’ concetto della sacca strutturale di disoccupazione). Credo sia opportuno e che si debba pensare di nuovo, assieme ad una riconversione ambientale dell’economia – poichè essa non garantirà un’immediata riconversione del posto di lavoro – al discorso del reddito di esistenza. Questo capitalismo va combattuto, su tali basi, costruendo l’unità dei lavoratori su scala europea e mondiale: a poco servono anatemi antiitaliani o accuse di collusione che rischiano di essere superficiali e ideologiche. Allo sciopero generale del 5 si dovrebbe partecipare, portando una forte dimensione critica ai modelli di sviluppo, stando assieme alla maggioranza dei lavoratori e alle loro famiglie.