Tuvixeddu da oltre le fioriere
30 Aprile 2012Alfonso Stiglitz
Ci vogliono i volontari per aprire, almeno per qualche ora, uno dei luoghi della nostra cultura nascosto ai più, vissuto da tanti nella loro giovinezza, ma veramente noto a pochi. E molti sono stati coloro che hanno voluto vedere con i propri occhi se il problema Tuvixeddu, come vogliono certi organi di stampa, interessa solo i soliti ambientalisti integralisti; e i molti sono stati veramente tanti, disciplinati ma insistenti e impazienti di toccare con mano se quello che da anni andiamo dicendo è vero. Se Tuvixeddu è un luogo reale.
Ci vuole l’entusiasmo dei ragazzi delle nostre scuole medie (Spano e Foscolo) e dei loro insegnanti che hanno voluto accompagnare da protagonisti chiunque volesse sapere e che non si stancavano di raccontare, con parole esperte, un luogo nuovo ma che è ormai diventato loro; speranza per la nostra città non più nelle nostre mani incapaci di dargli un futuro.
Ci vogliono gli Enti preposti, il Comune e il Ministero dei Beni Culturali pronti a confrontarsi sul problema e sulla sua non facile soluzione, anche con contraddizioni interne come nel caso dell’infelice delibera di Giunta municipale tanto discussa; non tutti purtroppo, assente non a caso la Regione Autonoma della Sardegna, ormai sempre più autonoma dai sardi.
Ci vuole un Sindaco, visitatore tra visitatori, un Massimo Zedda qualsiasi, che racconta quello che non va nel Parco. Gli Enti preposti che si trasformano in persone in carne e ossa, presenti a dialogare con i cittadini che consentono e dissentono: un suggerimento, in genere poco seguito, per proseguire nella ricerca di soluzioni. Poi, dissentire è un atto di civiltà, di vitalità: in una città di morti non è di poco conto.
C’è voluta l’incazzatura di Giorgio Todde per ricordarci che la strada è ancora lunga e che uno scrittore è tale, e grande, se non è rassicurante, se non ci dà una pacca sulle spalle. Uno scrittore che non ci fa arrabbiare ci disprezza e lascia che ci abbandoniamo alle lusinghe del quotidiano.
Ci vuole la buona volontà di un giudice che ha autorizzato l’accesso; un magistrato che in questi anni non ha girato la testa da un’altra parte e ha voluto vedere dentro Tuvixeddu, trovando che molto non andava, a differenza di altri giudici, quelli del TAR per non fare nomi e cognomi, la cui sconfortante attività giurisdizionale ha fruttato la devastazione di una parte importante della necropoli (vedi il caso Sant’Avendrace).
Ci sono voluti alcuni giorni di primavera, solari, luminosi, capaci di far percepire ogni piccolo particolare di un luogo pieno di ricordi; da quelli dedicati alla pietà verso i propri defunti, alla violenza delle cave che quella pietà hanno dimenticato; ma le cui tracce ci parlano della vita, del lavoro, della sofferenza di tanti operai, che hanno cavato e trasportato lungo quella stradina, tagliata per la decauville, che ora mostra le ferite nelle tombe, aprendole in modo indiscreto al nostro sguardo, fin dentro l’ultima dimora. È c’è lo sguardo di un anziano operaio della cementeria che mi chiede di ricordare che non fu solo l’Italcementi a devastare l’area, quasi che la presenza di altre cave diminuisse la responsabilità che sentiva propria, nell’identificazione con l’azienda che ha comunque garantito la sua vita. Una vita ricca anche di polvere e di polmoni insultati.
Ci vuole l’oscenità della vista sulla laguna e sul golfo deturpata dai palazzi, una linea continua; lo stupore delle migliaia di camminanti lungo i sentieri del parco rivolto, prima ancora che alle tombe finalmente raggiungibili, alle torri di un costruttore che ha voluto lasciare il proprio segno, cambiando il millenario paesaggio tanto declamato da poeti, viaggiatori e scrittori. Una vista oltraggiante e incombente da ogni dove, senza scampo, nonostante la benedizione ecclesiastica e simoniaca di chi ha voluto mescolare la processione pasquale con l’ostentazione del potere.
Ci vuole la memoria di chi attraversava quelle strade di miniera in mezzo ai pozzi funerari per andare a scuola, nelle elementari di via Falsarego o, più tardi, nella scuola media Spano o al liceo Siotto, a studiare con il peso, non ben percepito, della storia che stava sepolta sotto i propri piedi. E che racconta del tempo passato, soprattutto al ritorno, a frugare nelle tombe, con timore nascosto da baldanza, attenti a chi poteva comparire, un Fisietto tombarolo, un dimenticato da Dio e dagli uomini, una giovane alla ricerca di un po’ di domani.
Ci vuole la nostalgia, ma non il rimpianto, di chi ricorda la propria casa abusiva, abbarbicata alle tombe e qualche volta tomba essa stessa; ammutolendo davanti a residui di piastrelle o di blocchetti, ultimo lembo di quella piccola città dei vivi che sino a pochi anni fa ha convissuto con gli antenati. Ricordi anche miei quando, con Legambiente agli inizi degli anni ’90, realizzando la prospezione metro per metro dell’intera area, trovammo una famiglia nel vano dell’acquedotto, con bambino piccolo ma con tutti i mobili e il corredo, alla ricerca di una normalità negata, ma vissuta con dignità.
Ci vuole lo sgomento negli occhi di chi osserva il Parco archeologico con le tombe visibili dalle sbarre di una prigione, metafora calzante di scelte sciagurate, con le fioriere che violentano gli spazi che dovrebbero essere dedicati alla visita rispettosa, con i giardini che cercano, spudoratamente, di occultare le cave, quasi fossero una storia da dimenticare e non la metafora del presente.
Non ci vuole l’irritante consueta lotta per la primogenitura tra le varie Associazioni, quasi un territorio privato da difendere con le armi (della dialettica fortunatamente) dalle intromissioni altrui, un segnare confini in un bene comune; sconfortante.
PS
Ho cercato di tradurre le sensazioni e conversazioni tra le migliaia e migliaia di visitatori che hanno partecipato alle iniziative organizzate dal FAI, il 25 marzo e da Legambiente, il 21-22 aprile.