Alla manifestazione con mio zio
1 Febbraio 2011Pierluigi Carta
Venerdì 28 gennaio, sciopero generale della Fiom. A Cagliari la pioggia battente non ha fermato il corteo di 3.000 manifestanti che hanno ribadito il loro no al modello della Fiat di Marchionne, in difesa dei diritti dei lavoratori. Ventisei i pullman arrivati da tutta l’isola per la protesta nel capoluogo: in prima fila gli operai delle aziende in crisi.
In seconda fila gli studenti. Pochi, quasi un contorno. Eppure ogni anno qualcuno lascia i banchi di scuola vittorioso, qualcuno li lascia sconfitto, qualcuno persino si laurea. Ma il mondo del lavoro che resta acquattato ad accoglierli è lo stesso: inflessibile verso i flessibili, magro, claustrofobico e mal augurante.
Riassume bene la situazione il Segretario Generale della CGIL Sardegna, Enzo Costa, che durante il comizio del 28 gennaio in piazza del Carmine racconta – il paradosso del mercato del lavoro isolano. Dove c’è domanda di lavoro ma non c’è offerta, c’è cassa integrazione ma non reimpiego, e un tasso di precariato allarmante -. Il tutto inserito nel panorama disastroso di disoccupazione giovanile al 44,7%.
Il merito di un timido tentativo va all’associazione degli studenti UDU, che ha promosso un incontro con i vertici della FIOM CGIL Sardegna e il mondo operaio. Gli studenti si scusano, gennaio-febbraio sono mesi caldi, riscaldati non dalle proteste, ma dagli esami. Così incontri del genere, che dovrebbero rappresentare l’unica possibilità di formazione di un’unione concreta tra movimenti, vengono disertati e davanti ai microfoni c’erano solamente gli organizzatori.
Eppure a dicembre le manifestazioni congiunte degli studenti con gli operai della GEAS sui binari della stazione di Cagliari avevano fatto ben sperare. Cortei in 18 città di Italia e lo slogan “fabbriche vuote e piazze piene” è stato ampiamente rispettato, mentre le aule generalmente non son state abbandonate e a poco valgono i complimenti del segretario Durante – gli studenti stanno dando vita ad una delle lotte più straordinarie degli ultimi anni per affermare il diritto allo studio -. Purtroppo la via sembra segnata e stiamo lentamente tornando verso quella situazione in cui se uno è figlio di un operaio, di un lavoratore a basso reddito, non ha più la possibilità di studiare. È uno dei fenomeni più gravi che caratterizzano la nostra società. Chi lavora oggi è spesso povero, riesce a malapena a mantenere se stesso, figuriamoci se può mantenere un figlio che studia, magari in un’altra città –la razionalizzazione degli atenei vuole anche dire accorpamento-.
Oggi è sempre meno possibile riflettere sulle questioni del lavoro separate dalle questioni del sapere. Il lavoro in bocca ai capitalisti assume la sostanza della merce, come nel mondo dell’istruzione la preparazione ha un sapore superficiale e artificiale. La formazione viene sezionata in ore di studio e riproposta in crediti, in sigle e in attestati. L’Italia è sprovvista di un serio sistema di formazione professionale, nel calderone delle università rientrano tutti i settori, e tutti questi hanno fatto la stessa fine: inseriti nella fabbrica del sapere che sforna laureati de professionalizzati, applicando con alacre zelo il chiaro precetto del governo, che impone l’apprendimento di un titolo e non di una cultura. L’acquisizione di un freddo knowhow ma non lo spessore della personalità di un cittadino. L’out out di Marchionne e la manovra Gelmini sono le facce della stessa idea politica. Basterebbe ricordare agli studenti le condizioni della classe operaia italiana: 5 milioni di lavoratori che tribolano nelle fabbriche, che patiscono il più alto tasso di infortuni dell’intero mondo del lavoro; che subiscono il più alto tasso oggettivo di sfruttamento padronale; sui quali si allarga a macchia d’olio la precarizzazione; che, in condizioni lavorative spesso ottocentesche ( quelle degli operai della Tyssen Krupp sono più una regola che un’eccezione, non solo nelle fonderie e nella siderurgia); contro i quali, nel 2010, si è lanciata la scure della cassa integrazione di massa, che ha portato a 600 mila i cassaintegrati operai; con 7.600 euro di salario annuale in meno, 8 mila a fine 2010.
I giorni degli scioperi a Nuoro nell’80, contro la chiusura delle fabbriche di Ottana e Arbatax, non sono così lontani. Oggi come allora gli operai marciano assieme agli studenti, le motivazioni e i vestiti, che tornano di moda, sono molto simili. Solo che negli ultimi dieci anni si è aggiunto un altro elemento: i precari. Infatti il 14 dicembre a Roma anche le vittime del precariato erano convocate, assieme agli studenti e gli operai, per esprimere “il disappunto” popolare.
Anche gli immigrati stanno diventando degli elementi attivi durante gli scioperi. Le manifestazioni di questi giorni portano un barlume di aspettativa. Le vittorie non sono concrete ma i numeri sono incoraggianti: alla Powertrain di Torino l’80% aderisce allo sciopero; alla Iveco e agli stabilimenti Fiat di Cassino e Melfi, gli operai in sciopero sono il 70%; il 65% alla Marcegaglia di Alessandria e il 95% alla Marcegaglia di Asti; nella nota Thyssenkrupp, le adesioni sono state dell’80%; in 30 mila manifestavano in corteo a Torino e in 15 mila a Firenze; 400 studenti, che volevano dirigersi a Cassino, sono stati bloccati a Colleferro, ma altrettanti sono arrivati, coi pullman delle 7.30, nella piccola cittadina del frosinate.
“Tutti che protestano su tutto”. Potrebbero definirsi così alcune manifestazioni di venerdì. L’esempio più significativo è Genova, dove dovevano esserci soltanto gli operai delle riparazioni navali, invece oltre agli studenti, raggiunti successivamente da Cobas e dai Cub,si sono uniti anche i dipendenti di altre aziende e i comitati contro la privatizzazione dell’acqua. La crisi dall’11 settembre 2001 ha comportato per 1,5milioni di italiani la perdita del posto di lavoro, ma i governi che si sono succeduti in Italia hanno preferito spendere 3 milioni di euro al giorno per la guerra in Afghanistan. Immersi come siamo in questa nuova sorta di fascismo, fondato sulla “legalizzazione” del privilegio, sulla criminalizzazione degli oppositori, sulla dequalificazione della classe lavoratrice, non è facile sentirsi onorati di essere italiani.
L’unico modo per salvare il diritto di un’occupazione contrattualizzata consiste nel far sentire una voce unica di opposizione. Ovvero rompere la distanza generazionale, ispessitasi negli ultimi anni, tra i settori sotto attacco.