Altri Mondi. Chiapas: Alberto Patishtán libero
16 Novembre 2013Emilia Giorgetti
Alberto Patishtán Gómez è uscito dal carcere lo scorso 1 novembre, dopo 13 anni di prigionia. Una variazione del codice penale federale, entrata in vigore il 31 ottobre 2013, ha permesso al presidente messicano Enrique Peña Nieto, in risposta alla crescente pressione nazionale e internazionale, di concedere l’indulto per “violazioni gravi dei diritti umani, particolarmente del diritto ad un giusto processo”. Ci sono pochi precedenti di questo tipo nella storia del Messico: il più famoso di questi riguarda il pittore David Alfaro Siqueiros, incarcerato per il delitto di “dissoluzione sociale” e perdonato negli anni ’70 dall’allora presidente López Mateos.
Al momento del suo arresto, il maestro tzotzil Alberto Patishtàn insegnava nella scuola elementare pubblica del municipio El Bosque, negli Altos de Chiapas dove, a partire dagli anni ’80, indigeni, contadini poveri e “peones” si sono rifugiati, in ondate successive, e vivono ancora di agricoltura di sussistenza, in un clima di repressione e di militarizzazione costanti. Le comunità tzotzil sono disperse nella foresta, aggrappate al fianco delle montagne rivestite di rigogliosa vegetazione tropicale. Il sole cocente del giorno, le piogge torrenziali e il freddo rigido delle lunghe notti stellate permettono alle conifere di convivere con i banani, gli agrumi, il mais e il caffè. Le case sono spesso semplici rifugi, tirati su con poche assi di legno, un tetto di lamiera e il pavimento di terra battuta. I bambini sciamano per ogni dove: ci si sposa presto, infatti, anche a 12 anni, e si comincia subito a fare figli, uno dietro l’altro. In queste zone di emarginazione estrema, in seguito alla sollevazione zapatista del 1994, la repressione di stato contro i movimenti di recupero della terra si manifestò con tutta la sua violenza, culminando con il massacro di Acteal, portato a termine da truppe paramilitari il 22 dicembre 1997, non lontano da El Bosque, ai danni di una comunità disarmata di contadini tzotzil “desplazados”.
El Bosque ha una lunga storia di resistenza. Si costituì in municipio autonomo nel 1995, dopo elezioni fraudolente alle quali il 73% della popolazione rifiutò di partecipare e che confermarono il candidato filogovernativo. Da allora è amministrato da due autorità parallele: una ufficiale e l’altra, comunitaria, organizzata secondo le tradizioni indigene. Nonostante l’accordo verbale di non aggressione, il 6 febbraio del 1997 El Bosque subì il primo di una lunga serie di attacchi da parte dell’esercito messicano, che culminarono in quello del 10 giugno 1998, quando 3500 (tremilacinquecento) elementi della polizia e dell’esercito invasero la comunità. Il saccheggio e la devastazione iniziarono alle prime luci dell’alba. Molti fuggirono nella foresta per scampare all’arresto e alle violenza, inseguiti dagli uomini armati e dagli elicotteri. Alle 15.30 era tutto finito. Non rimase nessuna evidenza degli scontri: “si portarono via tutto, anche i morti” – 8 membri della comunità e due poliziotti -, secondo i testimoni. Da quel momento, la tensione tra la comunità e le autorità filogovernative corrotte si è mantenuta altissima, così come altissime si sono mantenute la miseria e l’esclusione sociale della popolazione indigena. Fu dopo vari tentativi abortiti di dialogo con il presidente municipale Manuel Gómez Ruiz che Alberto Patishtán cominciò ad essere segnalato come agitatore e nemico dell’ordine pubblico, fino all’occasione ghiottissima che si presentò il 12 giugno del 2000 e che dette inizio al suo calvario. Una pattuglia della polizia cadde in una imboscata nelle vicinanze di El Bosque: 7 morti e 2 feriti, uno dei quali era il figlio del sindaco. Le testimonianze dei sopravvissuti inchiodarono Patishtán. A poco valsero i suoi alibi e le dichiarazioni di chi poteva dimostrare che quel giorno il maestro si trovava altrove. Il 19 giugno, mentre si recava a lavoro, fu caricato a forza su una camionetta da quattro uomini senza uniforme. Fu interrogato senza l’assistenza di un avvocato, mantenuto un mese in “incomunicado” e, infine, dopo due anni di detenzione, accusato ufficialmente dell’omicidio dei 7 poliziotti e condannato a 60 (sessanta) anni di carcere.
“Difendevo il mio popolo. Per questo mi hanno messo in carcere con una condanna a morte. Vollero annientare la mia lotta, ma questa si moltiplicò. Vollero nasconderla, ma la fecero risplendere.” Durante questi 13 anni di detenzione ingiusta, infatti, Patishtán non si è mai arreso, anzi: è uscito rafforzato. Da dietro le sbarre, la sua lotta per i diritti degli indigeni accusati e condannati con processi farsa per delitti che non hanno commesso ha acquisito visibilità, attraversando le frontiere. E’ diventato modello e punto di riferimento per i suoi compagni di prigionia, molti dei quali sono stati liberati grazie alla sua azione incessante. L’arma che lo ha mantenuto in resistenza durante tutti questi anni, anche di fronte all’attacco della malattia – un tumore al cervello insorto in tempi recenti- è stata la serenità. “La prima prigione è la rabbia che si genera in te…..Questo è il primo carcere dal quale devi liberarti, per poter combattere contro l’altro….Se smetto di sorridere per me è un giorno perduto. Per questo se mi vedete sorridere sempre non dovete preoccuparvi: sorridere è la mia professione”.
La libertà di Patishtàn non è la generosa concessione di un presidente dal passato macchiato di sangue, ma è il successo di tutti quelli che hanno lottato per ottenerla e che, in questo percorso, hanno acquisito la consapevolezza della propria forza. Il cammino verso il riscatto delle popolazioni indigene del Messico, infatti, è lunghissimo. Da una parte, gli indigeni tzeltal Antonio Estrada Estrada e Miguel Demeza Jiménez e Alejandro Díaz Sántiz, tutti aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, i sette indigeni zapotechi di San Agustín Loxicha, Oaxaca, incarcerati come presunti appartenenti all’ Esercito Popolare Rivoluzionario (EPR), e molti altri sono ancora dietro le sbarre. Dall’altra, i paramilitari riconosciuti colpevoli del massacro di Acteal escono alla spicciolata dal carcere, con il plauso di CNN Messico, che li omaggia quasi come degli eroi, vittime innocenti, e ormai senza terra, della sovversione zapatista. I primi 69, alcuni di loro rei confessi, furono scarcerati 4 anni fa. Armati, si reinsediarono immediatamente nelle loro terre, nel municipio di Chenalhó, seminando il terrore e riattivando la violenza intercomunitaria, secondo il copione collaudato fino dai tempi della campagna di “contrainsurgencia” Plan Chiapas ‘94: stesse tecniche di intimidazione e terrore, questa volta mascherate da conflitti religiosi e tribali. Nel giugno passato, nella colonia Puebla, il commissario comunitario e pastore presbiteriano Agustín Cruz Gómez, il vecchio leader paramilitare Jacinto Arias Pérez appena scarcerato e i loro uomini, ricompattati sotto la bandiera della chiesa evangelica, hanno scatenato una nuova ondata di violenze che ha costretto 13 famiglie cattoliche ad abbandonare le loro terre e a rifugiarsi ad Acteal, in una triste riedizione della guerra sporca del passato recente.
La libertà di Patishtàn è solo una schiarita, in un presente ancora dominato dalla violenza e dall’impunità. Mentre i risorti paramilitari reclamano il colpo di spugna e la riscrittura di una delle pagine più sanguinose della storia del Messico, ottenendo visibilità da parte dei mezzi di comunicazione, le vittime restano in attesa di giustizia e assistono di nuovo, impotenti, all’ennesimo esproprio.
18 Novembre 2013 alle 23:51
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