Anatomia di una rivoluzione
16 Aprile 2013Marcello Madau
Credo che il catastrofismo sia una costruzione ideologica che serva ad enfatizzare i poli della discussione (“non c’è alcun pericolo, sono tutte manie degli ambientalisti”/ “ecco la catastrofe alla porta di casa”) per restringere e annullare lo spazio delle scelte ragionevoli.
Non è certo catastrofismo sostenere che l’equilibrio ambientale della Terra si avvicini ad un punto di non ritorno. E’ certo un fatto ciclico, il saldo passivo della contabilità ambientale. Non sfuggiva agli antichi. Ma la situazione è grave. La percepiamo bene a partire dai nostri corpi.
E’ quindi ragionevole mettere in discussione discutere l’attuale sistema economico, la crisi dell’ambiente e del lavoro che appaiono interconnesse. L’ultimo libro di Giuseppe De Marzo, ‘Anatomia di Una rivoluzione’, edito da Castelvecchi, Roma (con la prefazione di Maurizio Landini e l’introduzione di Marco Revelli) parla di queste cose con passione e competenza. Il sottotitolo è espressivo del ragionamento sviluppato: ‘giustizia, ambiente e lavoro per invertire la rotta e battere la crisi’.
Giuseppe De Marzo, studioso e attivista, ha fatto un passaggio in Sardegna, rilevante. Ha colto il momento delicato che l’isola sta attraversando, e, ne sono certo, anche una sua possibile centralità. E’ stato a Porto Torres al Centro Sociale Pangea, ha incontrato gli studenti del Liceo Scientifico di Sassari, ha partecipato il 12 marzo scorso ad una affollata ‘lezione aperta’ di Beni culturali e ambientali che ho proposto nell’aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Sassari, con il suo libro e gli interventi di Stefano Deliperi e Costantino Cossu, quest’ultimo in veste di moderatore.
Un libro politico sulle scelte ambientali e lo sviluppo sostenibile: vi è bisogno urgentissimo di scelte, ed esse devono avere sostanzialmente due requisiti: discendere da analisi e letture globali e porsi un problema di un intervento di sistema, storico, perché questo è il momento per progettarlo e realizzarlo.
L’autore inizia in discussione radicalmente la separazione temporale operata dal liberismo, e le sue promesse: prima si metta in moto l’economia, poi (più o meno automaticamente) si penserà a risolvere i problemi del reddito pro-capite e delle condizioni ambientali, che, dopo un peggioramento iniziale, tenderanno a migliorare. Così la curva dell’economista americano Kuznets, (grafico espressivo della relazione fra crescita economica e distribuzione della ricchezza), su cui il responsabile USA del WTO e il presidente della Banca Mondiale, nonché precedente direttore della potente Goldman Sachs basarono dichiarazioni e scelte politiche.
Non è esagerato dire che la realtà smentisce le precedenti dichiarazioni e teorie, e che queste ultime sembrano soprattutto giustificare la priorità assoluta della caccia del profitto, questione che diventa socialmente ingombrante se ad essa corrisponde un peggioramento drammatico dell’ambiente, delle condizioni di vita e di lavoro, della stessa democrazia.
Questa politica dei due tempi (il primo assai concreto, il secondo in buona parte illusorio) la conosce molto bene il nostro paese: se il Novecento, con lo sviluppo frenetico degli anni Cinquanta e Sessanta, a cui cercarono risposta le rivendicazioni sociali le lotte sociali, consegnò a un dissesto ambientale senza pari il ‘Bel Paese’ (cementificazione, inquinamento, dissesto idrogeologico), tanto da trasformare la molto idealista normativa sulle ‘bellezze naturali’ del 1939 nella ben più materiale ‘Legge Galasso’ del 1985), la situazione odierna ne eredita la lezione incattivendo, per la difficoltà dello stesso sistema, le prassi. D’altro lato, le comunità hanno avuto una grande crescita di coscienza in tutto il mondo, anche in Italia.
Assai poco percepita, a dire il vero, dal quadro politico. E le normative ambientali rappresentano, anche a colpi di referendum, una spia della centralità di quel tema giustizia che l’autore mette al centro, che coniuga e sviluppa con forte senso sociale.
E’ straordinario come le rappresentazioni palatine e post-borghesi di una supposta democrazia si occupino della propria riproduzione in un grottesco scenario, e come ben altre cose si muovano, vadano avanti con forza: comunità, gruppi, persone, studiosi, movimenti guardano e lavorano per una territorialità diversa, basata sulla condivisione dei beni comuni e la costruzione di nuove forme di economia e cultura.
De Marzo mette bene in luce la relazione stretta fra distruzione dell’ambiente e aumento della povertà (non a caso titolo di un fondamentale capitolo del lavoro), la chiave del razzismo ambientale. Fotografia inquietanti siti americani come Cancer Alley, aree sudamericane, europee, asiatiche.
Di lavoro si muore, come è noto, per mancanza di sicurezza. Comprese le morti per le produzioni inquinanti, che si stanno ampliando come un vero e proprio genocidio.
Questo sistema liberista non funziona: la giustizia ambientale, il lavoro, la corretta sfera biologica sono violate in modo sempre più pesante, e la crisi che noi chiamiamo ‘globale’ parla di un pianeta Terra pianeta gravemente malato.
E’ necessario cambiare paradigma, e De Marzo lo dice. Partire dalla sostenibilità ambientale comunità per comunità. Legare i beni comuni alle stesse comunità, in un modello biologicamente e socialmente sostenibile (la sostenibilità, aggiungo, è un termine non sempre limpido, visto che lo usano anche nei loro promo multinazionali dell’energia e dell’alimentazione non proprio virtuose dal punto di vista ambientale).
La crisi economica, innanzitutto crisi di questo sistema economico, incattivisce gli attori: la richiesta di danni miliardari per non aver potuto costruire su terreni non propri (come Energo Green a Cossoine, in provincia di Sassari) dà il segno dell’arroganza e dello smarrimento della ragione da parte di questi veterocolonialisti.
Mafia e malaffare cercano di dominare i paesaggi meridionali e delle isole tingendosi di un verde molto artificiale. L’assenza di nuove politiche basate sui frutti della terra, sulla cultura e sul paesaggio pesa come non mai. Ne sappiamo qualcosa anche in Sardegna, terra di conquista per avvelenatori, produttori di bustine per la spesa, nuovi padroni del vento e del sole.
Ad essi stanno rispondendo democraticamente le nostre comunità, i nostri giovani: da Porto Torres (con in testa il Comitato No chimica verde-No inceneritore) a Cossoine ad Arborea, da Macomer a Narbolia a Decimoputzu a Carbonia, i territori sardi sono animati da decine e decine di comitati.
Siamo a un giro di boa. E la boa dovrebbe essere, come precondizione necessaria, un grande cantiere pubblico di bonifica di tutta l’isola, un progetto di ricostruzione e lavoro a salari giusti senza esenzioni fiscali, per risanare tutto il nostro territorio: un bene comune che ci appartiene, la cui salute è condizione irrinunciabile per iniziare un’altra storia senza rinunciare alla nostra.
20 Aprile 2013 alle 17:34
Caro Marcello, troppa carne al fuoco. Il dibattito tra catastrofimo e uniformismo, nelle dinamiche della terra, viene da lontano, ha radici ideologiche e, purtroppo, non se ne può parlare in uno spazio di 1500 caratteri.
Quanto alle comunità locali, ne avevamo già discusso. Non è tutto oro quello che luccica. Spesso, nei movimenti del no a tutto si insinua proprio quel razzismo ambientale dei nimby, che pretendono l’eden a casa loro continuando a consumare merci le cui produzioni riversano sui paesi più deboli le devastazioni ambientali. In altre parole, quella dei nimby, come tutte le ideologie, è sovrastruttura sottesa da una struttura economica che si basa sullo sfruttamento dei paesi poveri (o meglio impoveriti dal capitalismo finanziario, ancor più che dal vecchio colonialismo delle cannoniere) e noi stiamo dalla parte dei ricchi (almeno per ora). Quanto alle finanziarie che stanno dietro le varie Energo Green, non hanno perso la ragione, e men che mai sono affette da “veterocolonialismo”, semplicemente possono permettersi questa arroganza, perché – nella miglior tradizione della P3 – hanno come complice la Regione (purtroppo) Autonoma della Sardegna.
22 Aprile 2013 alle 19:30
E’ vero, c’è molta carne al fuoco, Giacomo, e neppure discuto l’esistenza dei rischi che tu dici. Proverò allora a metterne un altro poco…
E’ certamente vero che c’è la percezione di una debolezza politica da parte dei nuovi potenti, ma ti assicuro che la loro arretratezza culturale è sconcertante. Faremo male a sottovalutare questo fatto, perché non capiremo bene quanto ci serva aumentare la nostra competenza; e il potere sui ‘nuovi’ mezzi di produzione, in essi (sai come la penso) il territorio, va riletto. Come pure servono riletture di sovrastruttura e struttura (mi bastano anche quelle, non recentissime, di Maurice Godelier).
Sai non meno di me che i processi sociali non sono mai lineari. Si tratta di fare delle scelte, vedere le contraddizioni e anche – non mi riferisco a te naturalmente -, mantenendo la soglia critica e portandola continuamente nel movimento senza avere la puzza al naso. Se non altro perché ce n’è anche troppa. Se ci sono movimenti, o persone ‘nimby’, vanno indicati per nome e cognome, non genericamente, altrimenti si rischia di parlare di tutti e nessuno. Con il pericolo, non piccolo, che chi non lo è lo sia considerato, e di dare potere ai nimby. D’altronde, è normale, è successo anche per il nucleare e per l’acqua. Nelle discussioni e nei contesti popolari che ho frequentato, che hanno chiesto a me come ad altri docenti un apporto, ho trovato competenza e passione. E ragioni da vendere.