Archeologia coloniale in Cisgiordania
25 Febbraio 2025
[Alfonso Stiglitz]
Il 27 ottobre del 1932 il regime fascista emette una serie di francobolli dedicata al «Decennale della marcia su Roma», serie disegnata da Carlo Mezzana.
Il pezzo da 75 centesimi è dedicato alla colonizzazione della Libia e riproduce un colono-soldato che dissoda la terra vicino a una strada romana basolata, affiancata da un miliario con la scritta SPQR [Senatus Populusque Romanus]. In basso il motto «ritornando dove già fummo». È la classica espressione, presente già nell’Italia liberale, che giustifica il colonialismo e l’appropriazione della terra altrui con il semplice fatto che in precedenza era parte integrante della ‘propria’ terra. Nel caso della Libia si trattava di un territorio parte integrante e importante dell’Impero Romano, che ne aveva ‘civilizzato’ le genti ritenute barbare ed era culla di una delle più importanti dinastie di imperatori, i Severi nativi di Leptis Magna. Dinastia che con le leggi razziali fasciste cadrà in disgrazia perché di pelle non propriamente bianca, di origini meticce come accuserà Giorgio Almirante, ma questo è un altro discorso.
Il colonialismo, l’appropriazione di terre altrui con la forza, si giustifica(va) con il primato della presenza e con la capacità civilizzatrice su popolazioni barbare e primitive incapaci di trarre giovamento da quella terra aspra ma potenzialmente feconda, se solo i coloni italiani si fossero attivati. Una delle prime attività coloniali è, ovviamente, quella di dare denominazioni ‘civili’ a quei luoghi imbrattati da nomi indigeni, barbari, magari impronunciabili e sicuramente incomprensibili. Conquista della terra ma, prima ancora, (ri)appropriazione culturale e linguistica.
Quel francobollo mi è tornato visivamente e prepotentemente in mente all’annuncio di un convegno scientifico [SCIENTIFICO?] tenutosi il 10-13 febbraio scorsi a Gerusalemme. Si tratta della «First International Conference on Archaeology and Site Conservation of Judea and Samaria» (https://arch-js.co.il/?page_id=781&lang=en) sponsorizzato dal Ministero del Patrimonio retto da un ministro ultranazionalista – per usare un eufemismo, in realtà un razzista dichiarato – dall’Amministrazione civile di Giudea e Samaria (Cisgiordania o West Bank) e dalla sezione dell’Università Bar-Ilan nell’insediamento illegale di Ariel. Alla Conferenza partecipano tutte le Università israeliane e studiosi di varie università straniere.
La gravità dell’iniziativa è stata denunciata da Raphael Greenberg, docente di archeologia presso l’Università di Tel Aviv, presidente del Board della ONG Emek Shaveh (https://emekshaveh.org/en/) che si occupa del ruolo dell’archeologia nel conflitto israelo-palestinese e nella difesa dei siti archeologici e delle comunità di riferimento. Nella lettera aperta che ha inviato ai partecipanti (https://emekshaveh.org/en/annexation-and-conference/) Greenberg sottolinea che l’iniziativa si inserisce nelle operazioni politico amministrative del governo israeliano di occupazione della Cisgiordania e dell’espulsione degli abitanti. La Conferenza, infatti, non rispetta gli standard delle Convenzioni internazionali sui territori occupati.
Gli interventi alla Conferenza presentano titoli asettici, apparentemente oggettivi, ma che rientrano nelle consuete attività coloniali del cosiddetto whitewash (sbiancamento) che porta a cancellare la storia dei luoghi per trasformarla in una narrativa funzionale all’occupante. Samaria e Giudea sono le denominazioni di un pezzo della storia di questi luoghi, legati al regno di Israele di biblica memoria, che occupa una parte del primo millennio prima della nostra era. Utilizzarlo oggi significa da una parte cancellare la storia di quei luoghi, precedente e posteriore a quel regno, dall’altra autoproclamarsi come eredi diretti di quell’esperienza storica e, come, tali detentori del titolo di proprietà.
Questa attività scientifica si affianca alla legge proposta da esponenti del Likud – in via di approvazione da parte della Knesset, il parlamento israeliano – che prevede il passaggio di giurisdizione dei siti archeologici della Cisgiordania sotto il controllo dell’Israel Antiquities Authority, l’autorità che gestisce l’archeologia in Israele; il che concretamente significa l’annessione della Cisgiordania, come chiaramente denunciato dal quotidiano Haaretz l’11 luglio scorso (https://www.haaretz.com/israel-news/2024-07-11/ty-article/.premium/allowing-israel-antiquities-authority-to-operate-in-west-bank-is-equivalent-to-annexation/00000190-a32c-ddf1-abb6-efedbd390000?lts=1739207343681&v=1740390673782)
La Cisgiordania ha migliaia di siti archeologici, come ha efficacemente sintetizzato e visualizzato Salah Al-Houdalieh, archeologo dell’Higher Institute of Archaeology della Al-Quds University di Gerusalemme (https://www.sapiens.org/archaeology/west-bank-heritage-looting-destruction/). È evidente che l’approvazione di questo provvedimento fornirebbe allo stato Israeliano il potere di intervento su qualsiasi comunità palestinese in qualsiasi parte della Cisgiordania, comprese quelle dell’Autorità Nazionale Palestinese, con la scusa di preservare la “storia ebraica” e l’identità israeliana.
Come dicevamo: «ritornando dove già fummo» motto perpetuo del colonialismo. Non mi sembra un caso che alle attività ‘concrete’ che i tanks del governo israeliano stanno portando avanti a supporto dei coloni ebrei e cristiani (si ci sono anche sionisti cristiani), per la «riconquista» di questi territori, come proclamato a gran voce dagli esponenti del governo, si affianchi l’attività accademica e scientifica.
Queste attività politico-militari trovano legittimazione nell’archeologia, come ben sappiamo nell’attività coloniale italiana, sia in epoca liberale (Giolitti & Co) sia nel ventennio (Mussolini). E non a caso il diritto all’occupazione è sancito da Congressi e Convegni scientifici ‘internazionali’, oggi a Gerusalemme, ieri a Tripoli con il primo convegno di archeologia romana del 1925. Sarà per questo che Netanyahu ha la piena sintonia e appoggio di massime autorità istituzionali italiane come il Presidente del Senato Ignazio La Russa, estimatore del Duce. Oggi, gli eredi dei persecutori degli ebrei (leggi razziali fasciste) si fanno sponsor di un governo israeliano ormai dichiaratamente razzista.
L’archeologia nasce come scienza nazionalista e colonialista, queste sono le sue radici nell’800 e continuano ancora a tornare a galla. Fortunatamente c’è qualche voce che si alza in Israele, in America e altrove. Spicca il quasi silenzio italiano e quello totale sardo: come sempre il nostro mondo scientifico è cieco, sordo e tendenzialmente muto, a partire dalle Università.
Ps.
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Più in generale: M. Wind, Torri d’avorio e d’acciaio. Come le Università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Roma, Edizioni Alegre 2024.
Letture su archeologia italiana e colonialismo:
S. Brillante, «Anche là è Roma». Antico e antichisti nel colonialismo italiano. Il Mulino, Bologna 2023. Leggibile on line gratuitamente dal link (https://www.darwinbooks.it/doi/10.978.8815/410559)
M. Munzi, L’epica del ritorno. Archeologia e politica nella Tripolitania romana, L’Erma di Bretschneider 2001.