Arte e non arte (4)

1 Novembre 2015
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Giulio Angioni

Che cos’era ed è quest’arte primitiva, extraeuropea? Pentole, scodelle, bastoni da scavo e altre cose che siamo abituati a considerare non artistiche. Ma Picasso che si ispira all’arte africana li fa oggetti artistici alla maniera occidentale.

Cioè, l’irruzione delle forme extraeuropee negli ateliers degli artisti, così come l’irruzione nel mondo musicale euroamericano dei ritmi e dei suoni africani e in particolare afro-americani, ha fatto scompiglio, poi moda, poi è diventato la colonna sonora della nostra vita quotidiana.

Gli oggetti d’arte africana erano oggetti d’uso, e anche le danze, i ritmi e i suoni afro-americani erano patrimonio comune delle comunità nere americane, che non li pensavano come un genere artistico, ma piuttosto come un aspetto di attività lavorative, o rituali, preghiere, o passatempo, ricreazione, era una dimensione che metteva insieme i movimenti ritmici del corpo con i suoni e le parole, che noi percepiamo per habitus come musicali e li inseriamo nell’arte della musica.

Ma qualche ragione generale c’è, sia per noi quando oggi con il senno di poi consideriamo il jazz arte musicale, sia i parigini che mettevano in museo una maschera rituale africana. Perché è una pretesa radicata del senso comune colto occidentale che l’arte sia in un luogo particolare, di gente particolare, che fa prodotti particolari e di particolare livello, e non la si critica mai abbastanza per quanto mondo umano lascia fuori. Picasso aveva tutte le ragioni per dire considerare arte una scodella o una maschera rituale, anche solo perché la dimensione estetica altrove non è mai stata quel quid particolare, specialistico, a sé come da noi con la certezza delle cose ovvie che non vanno disturbate.

Perché un oggetto quotidiano, un attrezzo pratico come un bastone da pastore sardo può essere artistico? Una delle cose più generatrici di approvazione estetica, è proprio la constatazione e la prova pratica che un qualcosa di costruzione umana è particolarmente adatta allo scopo anche banalmente pratico a cui serve. E sappiamo bene quanto uno degli aspetti più importanti della dimensione estetica per noi sia l’apprezzamento della forma adatta alla funzione, non solo quando un coltello solutreano ha la forma di una foglia di alloro. E oggi nel Museum of Modern Art a NewYork è esposta una Ferrari del 1952: un veicolo.

Infatti, potrebbe dirsi, quell’automobile è bella perché è una delle cose meglio pensate per fendere l’aria con una carrozzeria mossa da un motore a scoppio, perchè è fatta aerodinamicamente bene per lo scopo per cui è fatta. L’estetica funzionale tra l’altro spiega non solo e non tanto fenomeni come questo (e cioè che in un museo pieno di pitture e di sculture fatte per essere solo guardate salta fuori un oggetto d’uso, esposto sì ma non trasposto in semiosi estetica alla maniera della pop-art che gli sta intorno), ma anche e soprattutto perché è una cosa banale ma importante della nostra vita quotidiana l’apprezzamento, che non sbagliamo a considerare estetico, di una cosa fatta bene per ciò a cui serve.

Davanti a una scodella maori o a una Ferrari ciascuno di noi lo capisce e lo sente, sebbene sappia fare la dovuta differenza rispetto a quando si ferma ad ammirare la Pietà di Michelangelo. Non sono fuori dalla dimensione estetica i miliardi di uomini che non hanno mai appeso un quadro in casa se non anche per scopi religiosi o in funzione degli affetti e delle memorie famigliari. Siamo noi occidentali estetici quando appendiamo un quadro solo da guardare in modo ‘disinteressato’?

I quadri, oggi depurati da tutto ciò che non è considerato artistico, fino a cent’anni fa nelle case dei contadini e delle plebi cittadine i quadri erano perlomeno oggetti sacri, e anche le statue. La nostra ‘storia dell’arte’ degli ultimi millenni è anche storia della religione e della religiosità, sebbene in molti musei continuino a mostrarli come pura ‘arte’. Il Partenone era tempio dedicato ad Atena e manufatto politico e identitario degli ateniesi. Un’arte come il cinema non poteva nascere che in un ambiente tecnico che sa fare la registrazione dei suoni e delle immagini in moto, cosa che abbiamo sempre fatto in vari modi da che uomo è uomo, con eccellenze individuali anche prima della scrittura che sono passate alla storia come gli Omero e le Shehrazade.

La casalinga che mette una bambola al centro del letto come ornamento della camera, i vecchi chioschi nelle vie di Napoli o dappertutto in Italia le nuove cappelle di padre Pio, la statua del Sacro Cuore in un angolo della casa e molte altre cose di una parallela religiosità popolare, dette spesso kitsch, sono manifestazioni anche estetiche, sebbene gli studiosi di estetica facciano fatica a considerarle anche estetiche, almeno di un’estetica popolare, e facciano tanto più fatica a dirle arte, mentre i più distratti fannno fatica a riconoscere il bisogno, la necessità, la presenza costante e inevitabile della dimensione estetica in ogni aspetto della vita umana in qualunque forma di vita umana, faticano a mettere nello stesso contenitore, nella stessa crociana categoria dello spirito, la bambola che orna la stanza da letto di mia zia tanto quanto la copia su linoleum della Pietà di Michelangelo.

Ma non è detto che da noi contino solo le eccellenze individuali. Aveva ragione Picasso, eccellenza nelle arti figurative, quando gli sono piaciuti gli oggetti e le statuette e altre cose d’Africa e ne ha fatto gran conto in una dimensione tantodiversa, quella dell’arte per l’arte, mentre per gli africani erano oggetti quotidiani del lavoro e della vita domestica, ‘feticci’ o maschere rituali. Aveva anche ‘torto’, perché proiettava le nostre abitudini, concezioni e pratiche d’arte in un luogo diverso e faceva diventare opere di arte per l’arte, e da esporre come tali in museo, cose che la funzione principale di oggetti per cucinare, per lavorare i campi, per celebrare un rito.

Ma aveva anche ragione perché la dimensione estetica è sempre propria, variamente, di ogni attività umana: come tutte le altre attività o ambiti o dimensioni o aspetti che sono anch’essi sempre nella complessità della vita, che solo per essere intesa si può sezionare in ambiti distinti e con parziali focalizzazioni, ma provvisorie e conscie del loro appartarsi; e che la vita in tutte le sue forme è vita tutta intera, come hanno spesso ritenuto il senso comune di molti popoli e non poche teorie complesse del mondo e della vita di ogni luogo e tempo, dal buddismo del Tutto Indiviso e da certe antiche cosmologie, che sopravvivono tenaci nelle nostre credenze astrologiche da rotocalco, alle più attuali cosmologie accademiche: dove il tutto e ogni sua parte sono riconcepite come causa e conseguenza di tutto e di ogni parte, perché “il mondo è veramente grande e terribile.

Ogni azione lanciata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati”, scriveva Gramsci nel 1917, l’anno di Caporetto futurista e dadaista. Terribile e complicato, il mondo, ma dove tutto e ogni sua parte può e deve poter essere esteticamente riscattato, anche con gli orrori di Guernica.

Nell’immagine: Una delle pitture rupestri ritrovate nella grotta di Tassili n’Ajjer, nel deserto del Sahara (Algeria). Il dipinto, che risale probabilmente al 3500-3000 a.C.

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