Arti rubate
1 Luglio 2012Fabio Isman
Anche se troppi l’hanno dimenticato, non molto tempo fa l’Italia ha condotto e vinto un’importante battaglia internazionale, di profilo etico e culturale. Quando al ministero (siamo bipartisan) sedevano Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli, alcuni musei, collezionisti e mercanti americani hanno restituito poche centinaia di antichità scavate clandestinamente nella Penisola, dal 1970 in poi.
L’Università di Princeton calcola che, quando da inestirpabile piaga endemica l’opera dei “tombaroli” si è trasformata in una lucrosa industria internazionale, dall’Italia siano stati asportati un milione e mezzo di reperti: la più ampia razzia in un paese occidentale, dai tempi remoti di Napoleone. E che i pur pochi ritornati abbiano un valore di due miliardi di dollari: la restituzione più ingente nel dopoguerra, a parte le opere sottratte agli ebrei dai nazisti.
Alcuni oggetti sono degli hapax: unici al mondo, come il trapezophoros, marmoreo sostegno policromo di una tavola rituale del IV sec. a.C. alto un metro; gli Acroliti di VI sec. e la Dea di Morgantina, alta due metri e 20; la phiale dorata pure del IV sec., che pesa quasi un chilo; l’Artemide marciante del I d.C., e via elencando.
L’Italia, però, non ne aveva chiesto la restituzione per quanto erano preziosi, né per un insano e sciovinistico sentimento di appartenenza. Ma nel nome dei contesti. Parlare di contesto negli scavi clandestini è un azzardo: i “tombaroli” e i loro accoliti (l’industria dello scavo era una piramide che giungeva fino ai grandi musei passando per chi restaurava, chi trasportava, i mediatori, i trafficanti e i grandi mercanti) sono assassini del passato e della storia. Non scavano per studiare, bensì distruggono per lucrare. Non individuano un sito per chiarire che cosa rappresenti, ma lo devastano per saccheggiarlo. «L’archeologia», dice Daniele Manacorda, «mira alla ricostruzione della storia della presenza umana su un territorio, partendo dai segni che questa vi ha lasciato». Ma ai “predatori” non interessa affatto ricostruire: importa solo prelevare, rapinare e, s’intende, vendere e guadagnare.
Riducono i reperti a meri soprammobili; li fanno diventare muti; li evirano di quel rapporto con il passato, di cui pure sono portatori, e che non possono più comunicarci. Chi era quel principe che ad Ascoli Satriano vuole forse una tomba con il trapezophoros, i due grifoni che sbranano una cerva, in marmo greco e importandolo? Presumibilmente a Villa Adriana di Tivoli, dove era la statua, alta due metri, di Vibia Sabina, moglie dell’imperatore cantato da Marguerite Yourcenar? Non lo sapremo mai: colpa loro. Ma i sei pirati trasformati in delfini che si tuffano nel Mar Tirreno, raffigurati su un hydria a figure nere di Vulci del 520 a.C., nulla hanno a che vedere con il museo di Toledo, nell’Ohio, che infatti ha appena restituito il vaso, illegalmente acquistato nel 1982.
Ora, ad Ascoli Satriano, sono vicini il trapezophoros, il podanipter (vasca rituale per il lavacro dei piedi, 60 cm di diametro: le Nereidi che portano le armi di Achille «provano l’esistenza di vasi marmorei decorativi che sembrano anticipare di due secoli la prima produzione neoattica del II sec. a.C.», dice Stefano De Caro), e gli altri marmi trovati nella stessa tomba. La Dea di Morgantina (partita come Venere, tornata come Demetra), è vicina, nel museo di Aidone, agli Acroliti e ad un corredo di 15 argenti dorati che Eupolemo aveva nascosto, forse nel 211 all’arrivo dei Romani, in una casa poi bruciata.
Insomma, nell’“arte rubata”, i contesti si possono ricostruire soltanto fino a un certo punto; ma almeno l’unità di luogo, quella è salva.
Il Cratere di Eufronio con ‘La morte di Sarpedonte’, l’oggetto che ha dato il via alla Grande Razzia e dimostrato che esiste un ricco mercato (il primo reperto pagato un milione di dollari da un museo: il Metropolitan, nel 1972), ha ritrovato la kylix del medesimo autore e di Onesimo, con altri vasi, al Museo etrusco di Villa Giulia, provenienti anch’essi da Cerveteri. Bene: i giganti di Monti Prama non sono stati scavati clandestinamente; ma, per il tempo e l’incuria del passato, il loro contesto è analogamente smarrito.
Che facessero parte di un complesso unitario è tanto evidente e palese, che non occorre neppure sprecare parole.
Ma, purtroppo, qui non si pensa a tenerli uniti, laddove stavano, e dove sono stati trovati. Almeno tre pezzi a Cagliari, per documentare una scoperta sull’isola tra le maggiori. E questo è profondamente sbagliato, e profondamente antistorico.
Molto di Pompei ed Ercolano sta al Museo archeologico di Napoli. Ma perché era il museo dei Borboni, e quelli erano altri tempi. Nessuno si è sognato di portare uno dei 15 argenti di Morgantina, sempre «a documentazione», al museo di Palermo, che pure ospita le metope e molte statue di Selinunte. Trapezophoros eccetera sono perfino in un piccolo museo di Ascoli Satriano; la Dea ecc. a quello, non più vasto, di Aidone.
L’accentramento non è una delle qualità italiane, anzi tutt’altro: le “cento città”, i diversi Comuni, i piccoli Stati preunitari hanno favorito la disseminazione che è la caratteristica precipua del nostro Paese.
L’accentramento museale (Parigi, Londra, Berlino, Madrid) è frutto degli antichi Stati imperialisti, reduci dalle remote monarchie. Se si vuole, ci si rilegga Antoine-Chrysostôme Quatremère de Quincy, le sue Lettres à Miranda (1796): l’opera d’arte «è legata in modo indissolubile al contenuto dentro e per il quale è stata prodotta»; «dividere è distruggere; disperdere gli elementi e i materiali di una scienza è il vero mezzo per distruggere ed uccidere una scienza»; «la scomposizione» è «la morte di tutte le conoscenze, delle quali la sua unità è il principio»; chi lo fa, si può solo paragonare a «un ignorante, che strappi da un libro i fogli in cui trova delle vignette».
Perché «documentare» a Cagliari, separando una delle più sensazionali tra le scoperte sarde, e la massima negli ultimi tempi?
Procedendo alla medesima stregua, perché non «documentare», in un grande museo a Roma, i maggiori ritrovamenti del nostro Paese, magari con la faretra di Oetzi (la mummia del Similaun), un corpo di Pompei, uno degli argenti di Morgantina, uno dei giganti di Monti Prama?
Perché no. E questo non occorre spiegarlo. Allora, per cultura e non solo per analogia, che anche i giganti stiano tutti assieme.
Almeno dove sono stati trovati, visto che non sappiamo il luogo esatto in cui si trovavano.