Autoesotismo dei narratori sardi
16 Ottobre 2010Giulio Angioni
E’ stato trattato dai più accorti critici della Deledda il tema di una Sardegna che la Deledda presentava da Roma al resto d’Italia e del mondo, in troppo grande misura solo una sua Sardegna, anzi una loro Sardegna, cioè una Sardegna adattata a quelli che lei pensava fossero le aspettative e i gradimenti dei non sardi. E quali mai potevano essere i punti di riferimento, le aspirazioni e i risentimenti che, per quanto incerti, spingevano una signorina sarda di fine Ottocento a fare della Barbagia il terreno in cui mettere a cultura le sue smisurate e precoci aspirazioni alla gloria letteraria?
Ci sono precedenti, certo, e numerosi, che aiutano a comprendere. Ma se la giovane e poi anche matura Grazia Deledda si è “inventata” una sua Sardegna letteraria, bisogna dire che l’operazione, legittima e anzi tipica e forse indispensabile di ogni “invenzione” poetica, le è riuscita al meglio, eccome. Così bene le è riuscita la costruzione di una sua Sardegna soprattutto per i non sardi, che ancor oggi chi narra di Sardegna deve in qualche modo fare i conti con lei, e forse non può andare molto in là senza seguire almeno in parte le sue orme, tanto che suona stonato e fuori tempo perfino per i sardi. Ma non è il caso di ripetere che la fortuna di pubblico e di critica della letteratura fatta dai sardi, anche presso i sardi dipenda soltanto dalla capacità di “dir di Sardigna” secondo aspettative esterne scontate e di maniera, che insomma agli scrittori sardi ancora oggi non resti da fare altro da quel che alla Deledda è riuscito di fare finora meglio di tutti, eccettuati il suo conterraneo Salvatore Satta, Emilio Lussu e Giuseppe Dessì, che per i miei gusti lo hanno fatto meglio di lei.
Come scrive Alberto M. Cirese, “vista la forte capacità di persuasione che la Deledda ha saputo conferire alla sua immagine dell’isola, non mi pare affatto che sia uno sminuire la scrittrice se al dibattito sulle sue qualità letterarie e sentimentali si sostituisce o almeno si affianca quello sul suo ruolo politico-culturale: se si esamina il tipo di operazione che la scrittrice ha condotto in relazione ad una sua precisa situazione non soltanto “letteraria”, e cioè specificamente come intellettuale sarda alle prese con il problema di stabilire il contatto e la presenza culturale dell’isola entro il quadro nazionale postunitario, a partire da una distanza , da una estraneità e da una alterità che erano enormemente più accentuate che non per qualsiasi altra situazione regionale italiana, Sicilia compresa”. E siccome questa rappresentatività e alterità valevano altrettanto se non di più in ambito europeo, e più latamente almeno nell’ ambito del mondo occidentale dove la Deledda ha ampliato il suo pubblico, la presenza culturale dell’isola nel mondo attraverso la sua narrativa era certamente una sua più o meno esplicita e programmatica consapevolezza.
Consapevolezza che deve essere anche cresciuta di fronte ai flop di tutti i suoi romanzi non sardi, come nel caso di romanzi come Nel deserto o di Il paese del vento e più tardi nel caso di Annalena Bilsini e degli altri romanzi continentali: tanto che nonostante la sua insistenza sui romanzi non sardi Grazia Deledda ha infine prodotto l’autobiografismo sardo più genuino e più esplicito in Cosima (da cui poi è stato spesso visto nascere e crescere il potente autobiografismo nuorese del suo concittadino Salvatore Satta de Il giorno del giudizio). Con i suoi romanzi “non sardi” Grazia Deledda ha pagato il prezzo di un insuccesso forse immeritato a quella forte, caratterizzante e programmatica rappresentatività sarda della sua narrativa, che forse alcuni autori sardi continuano ancora oggi a pagare, ponendo ancora più chiaramente il problema se sia peggio, o meglio, il successo ancora dovuto all’autoesotismo oppure l’insuccesso che la sua mancanza o superamento a volte pare toccare a certe narrazioni di sardi di oggi.
I tempi sono parecchio e forse radicalmente mutati nell’isola e nel mondo. Eppure, in tempi di nuovi esili in migrazioni planetarie dalle grandi campagne alle grandi metropoli del mondo, non siamo più bisognosi, in modo tanto esclusivo ed escludente, di luoghi figurati intatti come quella Sardegna letteraria selvaggia ed esoticheggiante, che soprattutto Grazia Deledda contribuisce ancora a diffondere nel mondo, facendosi imitare a lungo nell’isola e, mi pare, anche fuori, se non altro sfruttando ancora oggi le attrattive dell’autoesotismo, mentre è costitutiva della mondializzazione una pressante richiesta globale di particolarità locali, quando cioè la globalizzazione sembra cercare scampo e senso nell’esotismo, e a volte lo fa molto male, anche in letteratura. Gli scrittori di oggi, anche in Sardegna, a volte si chiedono più chiaramente di altri quanto scampo ci sia in un’auto-esotizzazione che, legittimemente fittizia, forse è meno efficace del cercare di mostrarsi come si sa che si è, che è già cosa vaga provvisoria e problematica. Come mostra la vicenda di un bel libro recente, Accabadora di Michela Murgia. Per il quale si potrebbe dire che in Sardegna l’eutanasia molto probabilmente non ha prodotto una “professionalità” come l’acabbadora, ma solo una figura come l’acabbadora, cioè una personificazione fantastica di un problema sempre e dappertutto sentito e patito. Data pure per scontata la non esistenza della figura della acabbadora, ciò che questi racconti ci chiedono è concentrarsi sull´eventuale visione dell’eutanasia da parte della collettività, approfondire questo “bisogno di crederci”, e potrebbe condurre anche ad un giudizio di valore sull’eutanasia stessa. Perchè il bisogno di ricorrere all’invenzione di questa particolare e mitologica figura? Si tratta per lo meno della personificazione in panni sardi di un problema sempre e dappertutto sentito e patito. E si potrebbe considerare una metabolizzazione di una responsabilità morale, individuale e collettiva, come quella del volere porre fine a sofferenze finali, trasfigurandola in un “mestiere” e una figura fantastica come s’acabbadora? Può essere questa una buona definizione del fenomeno, vecchio e nuovo ma di ogni tempo e luogo umano, sempiterno e ubicuo. Un modo di porre su basi solide il risultato immaginario sardo di un problema reale come quello dell’eutanasia, sempre e dappertutto praticata in modi vari, modi piuttosto femminili che maschili. Senza dare per scontata la non esistenza de s’acabbadora, per non fare lo stesso percorso cieco di chi invece ne dà per scontata l’esistenza, ciò che si sa, e cioè l’esistenza di qualcosa di dicibile come desiderio universale di eutanasia, mostrato anche dalla figura de s’acabbadora, è invece un interessante tema letterario, che Michela Murgia ha risolto con accorta ambiguità: trattando una mitica personificazione dell’eutanasia, mostrando la potenza mitopoietica della Sardegna tradizionale che ha creato la figura della acabbadora , personificazione mitica potente di un problema universale, ma sfruttando anche quel tanto di esotismo, per lei autoesotismo, con impressioni di realismo e di vera e ben situabile esistenza di una tale figura, mentre era ed è lì davanti a tutti qui come altrove, sempre, almeno finora, l’esistenza reale del bisogno di eutanasia, che in Sardegna è diventata una figura di racconto che vuole essere veritiero. Se oggi da noi come in altri luoghi simili, spesso gli scrittori sentono ancora più o meno l’obbligo di fare i conti con la propria terra, oppure altrettanto rifiutandosi di farlo, per forse altrettanto forti pulsioni rispetto allo sguardo auto-esotico rivolto ai propri luoghi, tuttavia questi luoghi anche letterariamente non possono non essere e restare veri e propri luoghi d’origine. E quindi mitici. I nostri miti d’oggi sono tanti e pure alternativi. C’è da scegliere. Tanto sembrano durare poco, molto meno di un tempo.
17 Ottobre 2010 alle 16:56
Il successo del libro della Murgia sta, secondo me, nell’essere riuscita a trattare un tema universale dentro un mondo che, a torto o a ragione, viene da taluni considerato ancora ricco di residui antropologici ancestrali. Una certa Sardegna si presta a questa operazione e affascina chiunque viene a contatto con quanto ancora non è stato stravolto dal contemporaneo. Si pensi al suono delle launeddas e al fascino che travolse il ricercatore danese Bentzon ( quanto poco i Sardi sanno del suo lavoro fondamentale e di cui la mostra al tHotel ci mostra alcune belle immagini, grazie all’impegno dell’associazione s’Iscandula) e che ancora oggi emoziona chiunque riesce a capirne il codice sonoro. Ben vengano le Murgia a scuotere il nostro torpore intorno a temi tanto importanti quali il fine vita e altro ancora…