Babbo Natale e il disagio giovanile
16 Dicembre 2024[Amedeo Spagnuolo]
È di qualche giorno fa la notizia che un ragazzo di vent’anni ha appeso su un albero di Natale una lettera per Babbo Natale nella quale il ventenne affermava che non aveva più voglia di vivere e non riusciva a trovare un senso che potesse dare un significato alla propria esistenza.
La notizia è apparsa su quasi tutti i quotidiani italiani ma è stata velocemente derubricata coerentemente con il totale disinteresse che il nostro paese mostra per il futuro dei nostri giovani mentre continua a concentrarsi sulle modalità migliori da attuare per consolidare il potere detenuto da decenni dai nostri politici, industriali e potenti vari, molti dei quali ottuagenari, insomma da tutti coloro che nella nostra società ricoprono posizioni privilegiate.
Tornando al caso specifico preso in considerazione, il fatto è accaduto al politecnico di Bari, dunque un luogo di cultura dove si presume che ci siano giovani che hanno voglia di studiare per costruirsi un futuro e quindi hanno anche voglia di vivere. Invece, considerando il contenuto della lettera di cui sopra, pare che non sia così, insomma parrebbe che il malessere sociale sia ormai diffuso tra i giovani di qualsiasi estrazione sociale e culturale. Il problema che bisogna porsi però è come mai un ventenne affida a una lettera a Babbo Natale il suo grido di disperazione?
La risposta è semplice, il ragazzo in questione non sa proprio con chi parlare, non sa con chi condividere il suo sconforto, non alla famiglia, non agli amici, non agli insegnanti, dunque si pone un problema ancora più inquietante, probabilmente ciò accade perché ormai si parla solo di ciò che riguarda la vita quotidiana e immediata, niente che possa essere qualcosa che vada più nel profondo e cerchi di scavare nelle nostre inquietudini. I giovani oggi sono stati abituati, nei loro dialoghi, a rimanere in superficie, domande del tipo come stai, come ti senti, sono scomparse dal vocabolario dei giovani perché sono scomparse dal vocabolario della società.
In tutta questa angoscia però, forse, trapela un po’ di luce poiché se il giovane ventenne trova la forza di scrivere una lettera, anche se a Babbo Natale, significa che non ha già preso la decisione di oltrepassare l’ultima soglia, insomma c’è ancora una speranza. Migliaia di giovani in Italia e milioni nel mondo combattono quotidianamente contro questa atroce sensazione di sperdimento che col tempo diventa insopportabile al punto di indurre tanti di loro a fare delle scelte estreme. E allora emerge in tutti noi, genitori, insegnanti, giornalisti, medici il dovere di uscire dalla nostra realtà unidimensionale e immergerci con tutta l’anima nell’oscurità in cui si sono persi i nostri giovani e fare di tutto per tirarli via da lì.
Nelle nostre società ipertecnologiche, purtroppo, il disagio giovanile è una realtà sempre più diffusa e presente e i giovani, attraverso diverse forme comunicative, cercano in qualche modo di farcelo sapere, ma noi adulti, troppo egoisti o troppo distratti dall’impegno sempre più pressante di difendere le nostre rendite di posizione, non riusciamo, ma spesso, non vogliamo assolutamente ascoltare queste richieste d’aiuto che, spesso, se non ascoltate in tempo, si concludono con esiti terribili come è dimostrato dall’aumento esponenziale dei suicidi tra i giovani.
Il disagio di cui si parla scaturisce, principalmente, da un mondo che corre sempre più veloce, che muta in maniera sostanziale scaraventando i giovani in un baratro d’incertezze che li rendono sempre più fragili. Le pressioni alle quali sono sottoposti i giovani diventano sempre più pervasive e richiedono ai giovani di giungere a risultati sempre più complessi e ossessivi, ciò mina il loro equilibrio e la loro serenità, costringendoli a rinunciare ai propri sogni perché impegnati in una continua competizione con l’altro amplificata dai social media che, con la loro onnipresenza, non fanno altro che contribuire ad alimentare insicurezza e inadeguatezza nella dimensione giovanile.
La presunta comunicazione digitale in realtà sta producendo tra i giovani un senso di solitudine devastante, i giovani non riescono più a comunicare tra loro e quindi cercano rifugio nell’aridità del silenzio, tale soluzione però, con il tempo, soffocando le loro difficoltà che non vengono espresse, crea in ognuno di loro un peso che diventa gradualmente insostenibile causando depressione, ansia, disturbi alimentari, autolesionismo e, nelle situazioni più problematiche, arrivare perfino al suicidio. Purtroppo i due pilastri che, fino a qualche decennio fa, riuscivano a porre un argine a tutto ciò ovvero la famiglia e la scuola, non riescono più a fronteggiare queste emergenze per cui nei giovani si amplifica quella sensazione di abbandono che è una delle cause principali dell’angoscia giovanile.
L’unica strada percorribile per tentare di affrontare in maniera seria questa emergenza sociale è quella dell’empatia, solo immedesimandosi nel vissuto ansioso e depressivo di molti nostri giovani è possibile passare da un atteggiamento esclusivamente giudicante a un comportamento accogliente e comprensivo. Più che giudicare è necessario ascoltare a tutti i livelli, dalla famiglia alla scuola. In tutte le comunità bisogna avere l’intelligenza d’incoraggiare i talenti dei giovani spingendoli a seguire i propri sogni, cacciando via la paura di fallire. Bisogna assumere il disagio collettivo come una responsabilità di cui deve farsi carico tutta la collettività, solo in questa maniera potremo contribuire a sostituire nella mente dei nostri giovani la disperazione con la speranza di un futuro migliore nel quale potersi sentire amati e valorizzati.
“Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista “me ne frego”.
Lorenzo Milani