Balli e maschere di carnevale
16 Febbraio 2008Mario Cubeddu
Pochi giorni fa milioni di cinesi hanno atteso per giorni treni bloccati da neve e ghiaccio. Accampati nelle stazioni delle città cercavano la possibilità di raggiungere i paesi e le regioni d’origine in occasione del Capodanno, la loro festa principale. Li muoveva una spinta incoercibile verso la casa familiare, verso i luoghi resi sacri dalla storia degli antenati. E’ un impulso che mi sembra di poter capire. Sino a non molti anni fa, sino certamente all’istituzione dell’autonomia scolastica, non era previsto alcun giorno di vacanza per Carnevale. I giorni in cui ci si può legittimamente astenere dal lavoro sono decisi dallo Stato, che celebra in quell’occasione gli avvenimenti fondanti la sua esistenza e i suoi valori. Sono anche concordati con la Chiesa, che ha inserito tra essi i momenti principali dell’anno liturgico. Il Carnevale precede lo Stato, probabilmente precede anche l’esistenza della Chiesa. O forse, sino alla sua normalizzazione in tempi recenti, il Carnevale ha rappresentato qualcosa che lo Stato e la Chiesa vedevano come opposto e nemico.
Negli ultimi giorni di Carnevale sentivo in quegli anni provenire dal mio paese d’origine il richiamo che riporta a casa i cinesi per il Capodanno. Però non era festa, e anche il martedì grasso dovevo presentarmi sul posto di lavoro. Senza scampo. Trovavo assurdo che esistesse una marea di vacanze inutili e che invece io e gli studenti fossimo condannati a stare in aula mentre dalle strade giungevano un suono e un’aria di festa.
Oggi il Carnevale è in Sardegna un importante momento dell’anno da un punto di vista culturale, sociale, economico. Sia perchè è proposto come una propaggine della gioia e della festa estive, che contiene gli elementi capaci di attrarre il sempre più esigente “turista”, sia perchè conterrebbe in sè alcuni di quei fattori ancestrali che vanno a costituire il misterioso amalgama di credenze, miti, riti capaci di rivelare l’identità della Sardegna. Maschere, gesti, il cui significato si perde nella notte dei tempi. O che si possono interpretare grazie alle somiglianze con riti simili presenti in altri tempi e in altre parti del Mediterraneo. Ma anche occasione per iniziative che lasciano perplessi sulle origini e i motivi dell’ennesima invenzione di una tradizione, dalle sfilate modello Viareggio agli uomini-bestia coperti di pelli, ossa, corno e maschere di sughero.
Il Carnevale che richiamava me il martedì grasso era tutt’altra cosa. Erano anzitutto sos ballos, che oggi chiamano “i balli” senza dire nulla di loro. Per tutta la Sardegna, come per tutta l’Europa cristiana, Carnevale era musica, canto, e soprattutto danza. Si ballava con accompagnamento di strumenti musicali o di un gruppo di cantori. Il musicista era pagato con una parte della produzione di beni comunitaria, si poneva al centro dello spazio civico e attorno al suono che usciva dal suo strumento si sviluppava la danza. Ancora in qualche paese è possibile cogliere il senso primario del ballo sardo: riconoscersi esseri umani tra altri esseri umani, esprimere nel ritmo la coscienza dell’essere vivi e parte vivente della specie. Una vita che per un momento è accettata e vissuta con gioia totale: la frenesia del movimento caccerà i cattivi umori, la ripetizione ossessiva dei passi libererà la mente da pensieri e preoccupazioni e farà penetrare nel corpo la gioia pura del respiro.
Sos ballos sono naturalmente anche momento importante di vita sociale. E’ anzi uno dei momenti principali in cui la comunità si riconosce come tale. Anche se ha poche settimane, il bambino, appena è possibile farlo senza rischi per la sua salute, è presentato in piazza perchè senta i suoni e le vibrazioni della danza. I giovani faranno vedere la loro valentia nel ballo, le ragazze riveleranno l’abilità, la grazia, l’armonia delle loro figure sbocciate all’improvviso. Chi è quella ragazza, di chi è figlia? Intorno le persone di età si riconoscono nei vicini, nei parenti giovani, e aspettano il momento di entrare in pista, anche se solo per un ballo nell’ultimo giorno di Carnevale.
Sos ballos contengono una rappresentazione positiva del mondo. Dentro la norma, si può dire. Con il pericolo del conformismo rigido da gruppo folkloristico che precede l’asfissia e la morte della tradizione. Ma il Carnevale è sempre stato anche e soprattutto il regno della libertà, che cerca i suoi spazi e si esprime con la contestazione dei ruoli sociali, di quelli di genere e dei messaggi dominanti. Per questo il linguaggio del Carnevale, proprio come quello dell’arte, non può che essere contemporaneo. Un gruppo di ragazzi travestito da giocatori di football americano rappresenta la Sardegna di oggi forse più delle maschere zoomorfe che proliferano in questi anni, ritrovate in misteriose antiche carte. Al corteo della mascherata sarda che si tenne a Cagliari nel 1956, in occasione del congresso nazionale di etnografia a Cagliari, c’erano solo i mamuthones e gli issocatores. Ancora non si parla neppure dei thurpos di Orotelli, riproposti a partire dal 1979. Esprimeva bene lo spirito dell’antica mascherata carnevalesca un ragazzino visto in piazza qualche giorno fa con indosso una tuta lisa e in testa un berretto da meccanico. Non era neppure concepibile in passato l’addobbo o la mascherata da centinaia o migliaia di euro. Ciò che si indossava doveva essere vecchio, ridicolo: vecchie gonne, divise militari conservate in naftalina, parrucche, trucco, la vertigine di un tacco a spillo.
Quanto alla maschera, è vero che sul suo uso hanno inciso le proibizioni dettate dalle autorità. Ad evitare ciò che purtroppo avveniva spesso, il delitto facilmente occultato con la faccia invisibile e l’abbigliamento contraffatto. Ma, per quanto ne sappiamo, mascherarsi significava cambiarsi colore col nerofumo, su zinzinieddu, o coprirsi il viso in tanti modi. Le maschere riscoperte in alcuni paesi negli ultimi anni sembrano basarsi invece esclusivamente sui versi attribuiti al poeta Bonaventura Licheri. Poichè quei versi non sono del Licheri, nè del Settecento, ma molto più recenti, quelle maschere non possono trovare in essi un fondamento per la propria autenticità. E il Carnevale serve a svelare gli inganni, non a costruirne di nuovi.
15 Giugno 2008 alle 00:44
Comunque nel 56 esistevano già i boes e merdules di Ottana….filmati Rai