Banditi di pianura
30 Novembre 2010Mario Cubeddu
Il 21 aprile 1814 una “quadriglia” di banditi irrompe a cavallo nell’abitato di un paese ai piedi del Montiferru. Sono una decina, armati di schioppi e sciabole. La popolazione più povera fa finta di non vedere, i benestanti si barricano in casa. I banditi battono col calcio dei fucili contro la porta di un prinzipale, che resiste. Non sono pronti ad un assalto che potrebbe durare ore, si limitano a derubare un commerciante che sorprendono per strada e abbandonano il villaggio dopo poche ore. Niente di sorprendente in quegli anni, nella Sardegna stremata dalla carestia e dal soggiorno della corte dei Savoia a Cagliari. Ciò che meraviglia è la provenienza dei banditi. Il paese di collina, e in buona parte pastorale, è assaltato da banditi di San Vero Milis. Come, San Vero Milis? Un paese di pianura, di contadini, di belle donne dalla pelle bianca, non certo di grassatori a cavallo. Una conoscenza appena approfondita della storia della Sardegna ribalta molte concezioni mitiche della cosiddetta “identità” dei sardi. E’ quanto dimostra un libro uscito in questi giorni “Faide. Nobili e banditi nella Sardegna sabauda del Settecento”, pubblicato dalle edizioni Viella. L’autrice è Maria Lepori, una studiosa che insegna all’Università di Cagliari. Racconta che durante il Settecento non è la Barbagia pastorale la regione dove si registra un maggior numero di delitti, ma sono i Campidani di Oristano. E le faide più gravi e lunghe sconvolgono Ozieri, Nulvi e Aggius in Logudoro, in Anglona, in Gallura. La contrapposizione con lo Stato non ha un rapporto privilegiato col mondo pastorale, che non appare per nulla portatore di presunti caratteri resistenziali, o naturalmente combattivi. Gran parte dei pastori hanno rapporti di società subalterna con i veri protagonisti della società sarda di allora, gli ecclesiastici benestanti e i nobili di ogni livello, dalla piccola nobiltà di paese ai grandi feudatari che ormai vivono in Spagna. Maria Lepori dimostra che alla base dell’insicurezza dei villaggi e delle campagne nel Settecento, alla base di rapine e omicidi, ci sono le lotte per il potere tra famiglie aristocratiche. Sono loro a organizzare e portarsi dietro frange di ceti popolari e poveri legate a loro da subalternità di lavoro o di clientela. Subiscono ulteriore smentita le tesi già da molto tempo traballanti di Eric Hobsbawm sul banditismo che sarebbe espressione di malcontento e di rivolta sociale. Lo storico inglese per dare forza alle sue tesi ricorreva a molti esempi tratti dalla storia della Sardegna passata e presente. Le fonti che Hobsbawm usa sono compromesse dalle mitologie barbaricine, resistenziali e pastorali e chi conosce la storia sarda rimane perplesso di fronte ad alcune affermazioni discutibili di uno storico così noto e importante. Sulla vicenda storica e sull’identità dei sardi si stende in primo luogo uno spesso strato di oblio determinato dal carattere intollerabile di una vicenda fatta di subalternità, dipendenza, cancellazione e disprezzo di se stessi. Non si spiega altrimenti il fatto che non esista, nella ricca produzione “popolare” di versi e di racconti, alcun riferimento agli avvenimenti, spesso drammatici, della storia sarda. Questo porta a pensare che in essi vi sia ben poco di “popolare” e che in realtà esprimano soprattutto mentalità e interessi dei ceti privilegiati sardi, in primo luogo dell’unico ceto “colto”, il clero, ben poco propenso a fare memoria dei momenti difficili della nostra storia. Tutte le vicende in cui i sardi sono stati coinvolti ricevono attenzione solo in relazione a un ruolo subalterno. Poiché non si può vivere senza memoria, il passato rimosso, frantumato e disperso, riprende vita come falsificazione e invenzione. E riemerge in una veste gradita alle psicologie subalterne e ai detentori del dominio economico, sociale, culturale. La ricerca storica seria è la migliore strada per dissipare le nuvole del pregiudizio e i guasti delle falsificazioni ricorrenti. La nuova storiografia, strumenti come quelli che Maria Lepori applica da tempo allo studio della storia sarda del Settecento, sono in grado di ricostruire la complessità della vita sociale, delle lotte tra i ceti all’interno delle città e dei villaggi sardi, dei rapporti complessi e articolati tra la società sarda e i governanti piemontesi. Si può discutere un giudizio molto positivo sulla politica riformista attuata in Sardegna dalla dinastia dei Savoia, ma lo storico bravo e onesto è quello che fornisce ai suoi lettori argomenti per pensarla anche in modo diverso da lui. Lo studioso diventa nel racconto della vicende ricostruite uno scrittore di storia. Come tale deve interessare e tenere viva l’attenzione del lettore. E’ quello che sa fare l’autrice di un libro capace di far rivivere gli scontri tra le truppe regie, i dragoni e i bandos di centinaia di cavalieri, le fughe in Corsica, le paci solenni che durano spesso lo spazio di pochi giorni. E il racconto non perde di interesse se l’accertamento dei fatti toglie gran parte dell’aura mitica a donna Lucia Tedde Delitala, la nobildonna con i mustacchi da granatiere, capace di cavalcare e di sparare meglio di un uomo.