Basta col sovranismo gattopardesco
16 Settembre 2012Omar Onnis
Suonerà paradossale, ma come portavoce di ProgReS – Progetu Repùblica mi trovo in sintonia con le considerazioni espresse da Marco Ligas. L’operazione “sovranismo”, messa in campo dagli schieramenti politici di matrice italiana in Sardegna, non sembra altro che una tattica trasformistica alla ricerca di una legittimazione ormai perduta. Sappiamo bene che l’astensionismo elettorale si avvia verso una soglia patologica e che molti di coloro che anche ultimamente hanno votato per i partiti italiani e i loro alleati non li rivoteranno. È evidente la sfiducia generalizzata nella politica, del resto irresponsabilmente cavalcata da mass media sempre meno osservatori critici e sempre più parte in causa. In questo scenario i tentativi di rifarsi una verginità, da parte di chi è in larga misura responsabile della drammatica situazione presente, non devono meravigliare. Ne abbiamo già avuto una dimostrazione nel caso dei referendum anti-casta promossi dalla medesima casta, nel maggio scorso. Tuttavia c’è da porsi un interrogativo: perché il trasformismo in questo frangente si serve di una narrazione para-indipendentista? È vero che gli aspetti identitari tra i sardi hanno sempre una certa presa, ma a lungo sono stati tenuti ai margini (se non all’esterno) dello scenario politico mainstream.
La conclusione che se ne può trarre è che adesso, non solo per mancanza di meglio, questo riposizionamento retorico ha pretese di successo. Il naso fino del Palazzo percepisce una voglia diffusa di autodeterminazione. Dato che si tratta ancora di pulsioni per lo più irriflesse, non strutturate, si presume di poterle incanalare facilmente con operazioni da neo-lingua orwelliana.
Perché è chiarissimo che nessuno dei fautori del sovranismo pensa davvero alla sovranità. Nessuno di loro intende rinunciare al comodo ruolo di intermediazione che da duecento anni fa la fortuna delle classi dominanti sarde. Avviare davvero un percorso di sovranità (che, ricordiamolo, è il contenuto dell’indipendenza politica, non una sua alternativa o una sua edulcorazione) risulterebbe esiziale per una classe politica priva di idee e ancor più di una solida prospettiva per il medio e lungo periodo, ancorata a pratiche clientelari, di gestione del potere in termini particolaristici, se non personali. In questo senso, ciò che scriveva Francesco Pais-Serra nel 1896 è ancora terribilmente attuale: “[…]i partiti sono vivi, tenaci, intransigenti, battaglieri: ma non sono partiti politici, né partiti mossi da interessi generali o locali, sono partiti personali, consorterie nello stretto senso della parola. […]Si mettono alla dipendenza dei maggiori partiti, da cui ricevono in cambio protezione ed aiuto efficace nelle piccole contestazioni locali e soprattutto protezione personale per ottenere favori e per sfuggire alle conseguenze delle violazioni di legge e talvolta di delitti.”
È cambiato qualcosa da allora? Certamente una delle radici di tale corruzione dell’idea stessa di politica è la nostra dipendenza. Siamo convinti che il discorso della sovranità è una necessità storica ineludibile, se non altro perché le dinamiche contemporanee ci stanno mettendo già oggi davanti alla incombenza di compiere scelte decisive per la nostra sopravvivenza collettiva. Nondimeno dubitiamo fortemente che la classe politica attuale sia in grado anche solo di concepire un reale percorso di autodeterminazione. Ne dubitiamo, perché se davvero le forze politiche oggi in consiglio regionale volessero applicare l’opzione sovranista, avrebbero già molti temi su cui farla valere. C’è la battaglia sulle entrate da portare a termine (o da iniziare). C’è la questione trasporti da affrontare di petto, mettendo mano a un riordino generale dei trasporti interni e appropriandosi definitivamente del controllo di quelli esterni (non con operazioni propagandistiche fini a se stesse). C’è il comparto agroalimentare allo sbando. C’è il problema drammatico della scuola e delle università sarde, non strategiche per il governo italiano, ma fondamentali per il nostro presente e il nostro futuro.
C’è la questione energetica, la madre di tutte le questioni dal punto di vista economico ed ecologico. C’è la questione linguistica, comoda come scappatoia ma mai affrontata seriamente. C’è l’enorme giacimento di ricchezze costituito dalla nostra storia e dalla nostra archeologia. C’è l’allarmante problema dello spopolamento e della nuova emigrazione. Di tutto questo già oggi le forze politiche sarde dovrebbero occuparsi in modo radicalmente diverso, cercando soluzioni praticabili alle condizioni date. Non c’è bisogno di chiedere autorizzazioni e nemmeno di aspettare il sostegno dello stato centrale. Se non lo si fa è solo perché in realtà non lo si vuole e/o non lo si può fare. Molto più comodo liberarsi di ogni responsabilità, attribuendo all’Italia matrigna ogni demerito, nascondendo così la propria insipienza e la propria complicità interessata. Ma l’Italia (o la sua classe dominante) fa i propri interessi.
È assolutamente normale e inevitabile. Bisogna accettare il dato oggettivo che gli interessi strategici e vitali dei sardi sono inconciliabili, per ragioni strutturali, con quelli dell’Italia. Spetta a noi prendere in mano la nostra sorte. È necessaria una grandiosa assunzione di responsabilità collettiva. Non possiamo più permetterci di far decidere altrove le priorità alle quali adeguare le risorse materiali e umane della Sardegna. Per poter compiere questa svolta epocale sarà necessario un ricambio rapido e consistente della classe dirigente, come già si comincia a intravvedere in diverse amministrazioni comunali. Le forze sane e le competenze esistono, in Sardegna (e nella nostra emigrazione). Solo che non passano per le nomenklature dei centri di potere che oggi dominano la scena. Non possono essere dunque questi gli attori di una discontinuità storica.
Non capire questa evidenza è colpevole o doloso. Senza un vero cambiamento di prospettiva e di personale politico e dirigente – al di là delle formule ingannevoli che intendono mantenere, negandola a parole, la nostra subalternità – la Sardegna è destinata ad essere sempre più una pedina sacrificabile, mero oggetto di interessi altrui, così come è già oggi. Non è il sovranismo gattopardesco la risposta a questa situazione, ma un onesto percorso di acquisizione di sovranità che conduca la Sardegna, in tempi ragionevoli e nell’ambito del diritto internazionale, ad appropriarsi della propria soggettività storica e politica, in un’ottica di interdipendenze finalmente dispiegate e di una apertura al mondo attiva, partecipe e responsabile.
La conclusione che se ne può trarre è che adesso, non solo per mancanza di meglio, questo riposizionamento retorico ha pretese di successo. Il naso fino del Palazzo percepisce una voglia diffusa di autodeterminazione. Dato che si tratta ancora di pulsioni per lo più irriflesse, non strutturate, si presume di poterle incanalare facilmente con operazioni da neo-lingua orwelliana.
Perché è chiarissimo che nessuno dei fautori del sovranismo pensa davvero alla sovranità. Nessuno di loro intende rinunciare al comodo ruolo di intermediazione che da duecento anni fa la fortuna delle classi dominanti sarde. Avviare davvero un percorso di sovranità (che, ricordiamolo, è il contenuto dell’indipendenza politica, non una sua alternativa o una sua edulcorazione) risulterebbe esiziale per una classe politica priva di idee e ancor più di una solida prospettiva per il medio e lungo periodo, ancorata a pratiche clientelari, di gestione del potere in termini particolaristici, se non personali. In questo senso, ciò che scriveva Francesco Pais-Serra nel 1896 è ancora terribilmente attuale: “[…]i partiti sono vivi, tenaci, intransigenti, battaglieri: ma non sono partiti politici, né partiti mossi da interessi generali o locali, sono partiti personali, consorterie nello stretto senso della parola. […]Si mettono alla dipendenza dei maggiori partiti, da cui ricevono in cambio protezione ed aiuto efficace nelle piccole contestazioni locali e soprattutto protezione personale per ottenere favori e per sfuggire alle conseguenze delle violazioni di legge e talvolta di delitti.”
È cambiato qualcosa da allora? Certamente una delle radici di tale corruzione dell’idea stessa di politica è la nostra dipendenza. Siamo convinti che il discorso della sovranità è una necessità storica ineludibile, se non altro perché le dinamiche contemporanee ci stanno mettendo già oggi davanti alla incombenza di compiere scelte decisive per la nostra sopravvivenza collettiva. Nondimeno dubitiamo fortemente che la classe politica attuale sia in grado anche solo di concepire un reale percorso di autodeterminazione. Ne dubitiamo, perché se davvero le forze politiche oggi in consiglio regionale volessero applicare l’opzione sovranista, avrebbero già molti temi su cui farla valere. C’è la battaglia sulle entrate da portare a termine (o da iniziare). C’è la questione trasporti da affrontare di petto, mettendo mano a un riordino generale dei trasporti interni e appropriandosi definitivamente del controllo di quelli esterni (non con operazioni propagandistiche fini a se stesse). C’è il comparto agroalimentare allo sbando. C’è il problema drammatico della scuola e delle università sarde, non strategiche per il governo italiano, ma fondamentali per il nostro presente e il nostro futuro.
C’è la questione energetica, la madre di tutte le questioni dal punto di vista economico ed ecologico. C’è la questione linguistica, comoda come scappatoia ma mai affrontata seriamente. C’è l’enorme giacimento di ricchezze costituito dalla nostra storia e dalla nostra archeologia. C’è l’allarmante problema dello spopolamento e della nuova emigrazione. Di tutto questo già oggi le forze politiche sarde dovrebbero occuparsi in modo radicalmente diverso, cercando soluzioni praticabili alle condizioni date. Non c’è bisogno di chiedere autorizzazioni e nemmeno di aspettare il sostegno dello stato centrale. Se non lo si fa è solo perché in realtà non lo si vuole e/o non lo si può fare. Molto più comodo liberarsi di ogni responsabilità, attribuendo all’Italia matrigna ogni demerito, nascondendo così la propria insipienza e la propria complicità interessata. Ma l’Italia (o la sua classe dominante) fa i propri interessi.
È assolutamente normale e inevitabile. Bisogna accettare il dato oggettivo che gli interessi strategici e vitali dei sardi sono inconciliabili, per ragioni strutturali, con quelli dell’Italia. Spetta a noi prendere in mano la nostra sorte. È necessaria una grandiosa assunzione di responsabilità collettiva. Non possiamo più permetterci di far decidere altrove le priorità alle quali adeguare le risorse materiali e umane della Sardegna. Per poter compiere questa svolta epocale sarà necessario un ricambio rapido e consistente della classe dirigente, come già si comincia a intravvedere in diverse amministrazioni comunali. Le forze sane e le competenze esistono, in Sardegna (e nella nostra emigrazione). Solo che non passano per le nomenklature dei centri di potere che oggi dominano la scena. Non possono essere dunque questi gli attori di una discontinuità storica.
Non capire questa evidenza è colpevole o doloso. Senza un vero cambiamento di prospettiva e di personale politico e dirigente – al di là delle formule ingannevoli che intendono mantenere, negandola a parole, la nostra subalternità – la Sardegna è destinata ad essere sempre più una pedina sacrificabile, mero oggetto di interessi altrui, così come è già oggi. Non è il sovranismo gattopardesco la risposta a questa situazione, ma un onesto percorso di acquisizione di sovranità che conduca la Sardegna, in tempi ragionevoli e nell’ambito del diritto internazionale, ad appropriarsi della propria soggettività storica e politica, in un’ottica di interdipendenze finalmente dispiegate e di una apertura al mondo attiva, partecipe e responsabile.
17 Settembre 2012 alle 10:32
Articolo condivisibile nell’analisi del trend “sovranista” e nelle questioni poste, sopratutto pensando a quanto le soluzioni debbano essere opposte a quelle della classe dominante italiana (e de sos teraccos de inoghe).