Bertolucci tra il sessantotto e le elezioni

1 Maggio 2008

Bernardo Bertolucci
Sante Maurizi

«Rivendico la legittimità di votare Veltroni dicendomi ancora comunista», dichiarava Bernardo Bertolucci nell’intervista a Repubblica precedente le elezioni. E come si sarebbe potuto addolorare l’«amico Veltroni», specularmente iscritto per una vita al Pci senza essere mai stato comunista? Con le interviste a personaggi famosi è sempre così, nello spazio delle colonne di un giornale sono chiamati a concentrare un mondo: «Finché esistono grandi disuguaglianze, finché esistono così tante persone che soffrono possiamo continuare a dirci comunisti. In me quella parola continua a suscitare emozione». Solo ai grandi artisti siamo disposti a concedere di scambiare stati d’animo per categorie politiche (e oggi storicizzate, pare: fuori dall’attualità parlamentare).

Ma il regista è anche fra i più titolati a ragionare sul Sessantotto, perché sui nodi rappresentati da quell’anno non ha smesso di interrogarsi, fiutando l’aria già nel ’64 con «Prima della rivoluzione» («mettevo in scena un comunista borghese in polemica con un partito immobile, chiuso al nuovo») fino a «The dreamers». E perché (ma questa non è una novità da anniversario) c’è in giro una gran voglia di «addossare al ´68 le colpe di tutto il peggio che è venuto dopo». Detta così parrebbe una difesa d’ufficio: Bertolucci esordisce con «La commare secca» a 21 anni su un soggetto di Pasolini. Nel ’68, a ventisette anni, è al suo terzo lungometraggio, «Partner»: il regista ha avuto il privilegio di veder coincidere la propria giovinezza con uno dei momenti più stimolanti del secolo, e di viverlo da protagonista sulla scena artistica internazionale. Il problema è che oggi il «rifiuto di quel vento di libertà» va di pari passo con «l´anestetizzazione delle menti di chi giorno per giorno si mette davanti alla tv. La sistematica non-cultura ha addormentato se non accecato una considerevole parte degli italiani». E questa è «la cosa che più è riuscita» a Berlusconi, conclude Bertolucci.

Che quella italiana sia un’anomalia pare siano rimasti solo gli italiani a non curarsene (come venne trattato con sufficienza Sylos Labini quando all’epoca della prima ‘discesa in campo’ contestò, seguendo una legge del 1957, l’eleggibilità di chi fosse titolare di una «concessione pubblica di rilevante interesse economico»!). Ma la partenogenesi non è provata nemmeno per le anomalie, e forse nella filiera che ha determinato questo nostro presente si può ancora riflettere su quella stagione di quarant’anni fa. In quel sommovimento giovanile e pre-politico c’erano due elementi che non vengono citati spesso, presenti nella coscienza dei ragazzi europei e d’oltreoceano: il napalm e Praga. Così come il grande capitale ha sviluppato strumenti sempre più sofisticati e pervasivi di dominio, oggi gli Stati Uniti non vanno più in giro a incendiare foreste e villaggi come facevano in Vietnam. A differenza di allora non sono soldati di leva a combattere, si nascondono le immagini del ritorno in patria delle bare dei caduti, e mentre l’Occidente si sbraccia per il Tibet, Bush rivendica la liceità della tortura. L’invasione della Cecoslovacchia, poi, diceva allora una volta di più che la nazione del comunismo realizzato era pura forza militare, rendeva urgente a sinistra un’invenzione che andasse oltre la sclerosi burocratica della forma-partito, e spostava l’ago della bussola dei delusi da Mosca verso quella che Bertolucci chiama «mitologia maoista».

C’è però un altro elemento, tutto e solo italiano: piazza Fontana. Le rivendicazioni contro il paternalismo autoritario, ormai insopportabili nella scuola e nell’università, costruivano proprio in quei luoghi una soggettività che provò a saldarsi con quella operaia e poi femminista. Ma arrivò la strage di Milano, e il successivo decennio isterico di assassini e conquiste sociali e civili maturò una rancorosa voglia di rivincita in quell’Italia che si era ipocritamente stracciata le vesti (e acceso un rogo purificatore) guardando la ‘scena del burro’ di «Ultimo tango a Parigi»: non per l’atto – che l’arrapava – ma per la blasfema preghiera di Brando contro la famiglia («covo di tutti i vizi sociali»). Chi addossa oggi al ´68 le colpe del peggio, esortava negli anni settanta i simpatizzanti missini al «voto utile» democristiano, e diceva nei bar che la rovina d’Italia erano i sindacati. È sconcertante, per chi non sappia abdicare alle amnesie, la coazione a ripetere di questa parte d’Italia. Così come – oggi lo possiamo dire definitivamente, a urne chiuse – è sorprendente la fragilità di chi è uscito dalle macerie del muro di Berlino, ne sia sortito da destra o da sinistra. Capace di combattere, anche generosamente, ma sul terreno immaginato dall’avversario (si chiamava egemonia).

Lontano il Sessantotto perché – appunto – impossibile immaginarsi. «’L’immaginazione al potere’ era un bello slogan» diceva Italo Calvino in una intervista del 1982, «però in fondo l’importante è proprio il contrario, perché è soltanto su una certa solidità prosaica che può nascere una creatività; la fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane». Paiono davvero mancare entrambi, il pane e la marmellata, a questi anni di arrancare italiano.

1 Commento a “Bertolucci tra il sessantotto e le elezioni”

  1. Angelo Liberati scrive:

    Un brutto vento gira per l’Europa. Chi ha buona memoria ricorderà che troppi “compagni” avevano perduto la bussola già prima della caduta del muro di Berlino. Per nostra fortuna esiste ancora una società civile, formata da politici e comuni cittadini, da non confondere con la “società civile” esaltata dai troppi “Presidenti”, che ammorbano l’aria quotidianamente. Un corpo sociale in grado di ascoltare i Sylos Labini che non si stancano di denunciare l’anomalia italiana, purtroppo consolidata.

    Buono l’intervento di Maurizi da cui estraggo due passaggi

    ….(come venne trattato con sufficienza Sylos Labini quando all’epoca della prima ‘discesa in campo’ contestò, seguendo una legge del 1957, l’eleggibilità di chi fosse titolare di una «concessione pubblica di rilevante interesse economico»!)….

    …Ma arrivò la strage di Milano, e il successivo decennio isterico di assassini e conquiste sociali e civili maturò una rancorosa voglia di rivincita in quell’Italia che si era ipocritamente stracciata le vesti (e acceso un rogo purificatore) guardando la ‘scena del burro’ di «Ultimo tango a Parigi»: non per l’atto – che l’arrapava – ma per la blasfema preghiera di Brando contro la famiglia («covo di tutti i vizi sociali»)….

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