Better Man: la travolgente storia di Robbie Williams e di noi tutti, tutte, tuttə

8 Gennaio 2025
Un fotogramma del film

[Francesca Pili]

Better Man di Michael Gracey, definito e presentato come un biopic su Robbie Williams, cosa che certamente è, non prevede una conoscenza o un apprezzamento pregressi di Williams come artista, per essere visto, gustato, e per risultare un film — molto — interessante. 

Perché è sì un film che parla di Robbie Williams, ma per parlare pure d’altro.

Pure di noi. 

Better Man parla della sindrome dell’impostore/impostora/impostorə, a causa della quale, anche, e, assai spesso, soprattutto, quando gli altri intorno a noi ci apprezzano, e ci riconoscono delle qualità, dei talenti, continuiamo sempre a pensare e a dire a noi stessə: ma quando si rendono conto che sono solo un bluff? 

Parla di quanto, a volte, siamo i primi nemici, la prime nemiche, lə primə nemicə di noi stessə, di come ci detestiamo, di come non ci amiamo abbastanza, e ci boicottiamo e ci autosabotiamo, e boicottiamo e sabotiamo ciò che di bello, nella vita, ci capita (relazioni, passioni, esperienze lavorative, opportunità varie ed eventuali).

Parla del senso di inadeguatezza.

Parla di relazioni.

Parla di depressione, e di salute mentale.

Parla della fragilità dell’esistenza umana.

Parla della vita nelle periferie, parla di bullismo, e del desiderio spasmodico di riscatto.

Parla di dipendenze.

Parla di quanto contino, di quanta responsabilità abbiano, di quanto peso abbiano, nella nostra vita, nella nostra esistenza, nel nostro modo di vederci, di considerarci, nel nostro modo di vivere, e di approcciarci agli altri, al mondo, nelle nostre scelte, l’infanzia che abbiamo vissuto, l’ambiente familiare e sociale nel quale siamo natə e cresciutə, ci siamo formatə, in cui viviamo.

Parla di felicità e performatività obbligatorie, e del fatto che, anche se non si è Robbie Williams su un palcoscenico, tuttə noi ci ritroviamo comunque costrettə a performare continuamente, senza tregua, senza posa, senza poter essere mai davvero noi stessə, in un atto performativo perenne ad uso e consumo e per gli occhi degli altri, e di ciò che vogliono e si aspettano da noi e/o che noi crediamo che si aspettino e vogliano da noi, ad uso e consumo e per gli occhi di una società della performance, dell’apparenza, della retorica meritocratica, della felicità come dovere, del successo a tutti i costi, della frenesia, dell’iper-produttività e dell’iper-lavorismo capitalisti, che si aspetta, che pretende, che inseguiamo una perfezione impossibile e imperfetta, negativa e deleteria, e che interpretiamo un determinato ruolo, dei determinati ruoli, spesso e volentieri precostituiti — di genere, in amore, in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale —, uniformanti, omologati e omologanti, e che, se e quando ci rifiutiamo di farlo, se e quando vogliamo essere altro, ci giudica, tende a ghettizzarci, a trattarci come dei reietti, delle reiette, dellə reiettə, a condannarci.

Parla, quindi, anche della paura, delle paure, annichilenti, e del coraggio di liberarsi e di essere ciò che si è, ciò che si vuole e si sceglie di essere.

Parla delle lotte contro i nostri demoni, delle strategie che la nostra psiche e il nostro corpo attuano per tenerci a galla, e di quelle che, invece, sembrano attuare per tenerci o riportarci in basso, in fondo.

Parla di liberazione, di liberazioni, e di libertà.

Parla della vita, e della morte.

Parla di quanto l’amore, l’amare, e il sentirsi amatə, accoltə, volutə, cercatə, e l’imparare, finalmente, prima ad accettare, poi ad accogliere, quindi ad amare se stessə, abbia un peso specifico in tutto questo, e nell’affrancamento, nel superamento, di tutto questo.

È un film pieno zeppo, debordante, straripante, d’amore, e di voglia di vivere, dopo tanto tempo a limitarsi a sopravvivere, a esistere, a negare a se stessə la vita, desiderando spesso di morire, di non essere, di non esistere.

E Gracey, che è un regista visionario, si avvale, per rendere la narrazione ancora più interessante, dell’espediente della rappresentazione di Robbie Williams come una scimmia.

Una scimmia con le espressioni, le movenze, la personalità, l’essenza dell’artista britannico.

Ciò che gli ha dato l’idea di rendere il Robbie Williams filmico una scimmia, di dargli forma, e corpo, da scimmia — dice — è stata una frase che proprio Williams, parlando di sé, e, nella fattispecie, dei suoi anni da Take That, ha più volte pronunciato, ovvero: mi buttavano sul palco, mi lanciavano sullo sfondo, si aspettavamo che mi comportassi, come se fossi una scimmia ammaestrata.

La scimmia è la rappresentazione, la trasposizione su schermo, l’incarnazione, del modo nel quale Robbie Williams ha sempre, o comunque per lungo tempo, visto, se stesso.

Quello che vedeva solo lui di sé, anche mentre gli altri lo acclamavano.

Il modo nel quale lui, e non gli altri, non gli occhi esterni, ma il suo sguardo interiore e interiorizzato, per gran parte della sua vita, si è visto, ha visto.

Ed è una scimmia pensata e realizzata davvero bene: incarnata e portata sullo schermo egregiamente dall’attore Jonno Davies, il cui compito era proprio quello di rappresentare l’essenza fisica del protagonista, che ha recitato ogni scena, che si è sempre mosso sulla scena, indossando una tuta da motion capture, simile a quella usata da Andy Serkis per interpretare Gollum, e ha studiato benissimo ogni movenza, espressione, abitudine dello Williams reale, certamente e chiaramente coadiuvato, in tutto questo, per l’appunto, dalla motion capture e della CGI elaborate dalla Weta – la casa di effetti speciali di Peter Jackson –, partendo dai movimenti del corpo e facciali di Williams, per creare una scimmia assolutamente umana, assolutamente williamsiana.

La scimmia che vediamo sullo schermo non si muove come una scimmia, o come un essere umano qualsiasi, dal talento generico. Si muove, e ti guarda, ride e piange, e si tocca il mento o il lobo dell’orecchio, esattamente come Robbie Williams. 

Questa scelta è stata senza dubbio un azzardo, perché il rischio poteva essere quello di rendere tutto grottesco, poco credibile, involontariamente comico, pure laddove proprio non lo è, ma anzi.

Insomma, un tale azzardo poteva risultare o un totale fallimento o una enorme genialata.

Decisamente, è la seconda, la possibilità vincente.

Il Robbie Williams scimmiesco, il Robbie Williams di Better Man, è magnetico.

Empatizzi con lui, ti ci affezioni, soffri con lui, ami con lui, vai e fondo mille volte e poi, finalmente, ti liberi e rinasci con lui.

È più umano lui di chi ha sembianze, un’apparenza, umane. Di chi non vede, e non ha mai visto, se stesso come una scimmia, come uno meno evoluto, che non vale nulla, un impostore che non può mai davvero farcela.

È profondamente umano.

È un protagonista perfetto.

E il fatto di rappresentare il protagonista in questo modo ha anche un altro valore aggiunto: quello di conferire al racconto un grado di separazione in più rispetto alla realtà effettuale, che rende ancora più libera la narrazione, più libero e possibile tutto, pure le parti più toste; è assolutamente Robbie Williams, persino più Williams di Williams – una scimmia più vera del vero nel restituire il suo sguardo allo stesso tempo allucinato e straziante, audace e seducente, la sua energia cinetica incontenibile, la sua indole provocatoria e provocante, il suo fascino (è proprio il caso di dirlo) animale –, ma è anche, nel contempo, altro, altri, tutti, tutte, tuttə noi.

La colonna sonora è, ovviamente, costituita dai pezzi più famosi di Williams, che non seguono, nel racconto, un ordine cronologico, di uscita discografica, ma una successione legata al momento della storia, della vita e allo stato d’animo del protagonista, dove ogni pezzo, così come ogni altro elemento, ha una funzione narrativa.

Better Man è uno dei migliori biopic che abbia mai visto in assoluto, e, senza dubbio, il migliore e più originale, peculiare, direi unico nel suo genere, degli ultimi decenni.

È coraggioso, straripante, vivace, divertente, trascinante, e anche drammatico, intenso, profondo, cupo, estremamente commovente (portate con voi almeno un pacchetto di fazzoletti).

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