Bimba di due anni uccisa a Gaza

11 Ottobre 2015
gaza-disegno
Nicole Argenziana

Stamattina Israele ha mietuto altre due vittime innocenti. Una bomba sganciata a Gaza City ha ucciso una donna incinta di cinque mesi, Nour Rasmi Hassan e la sua figlioletta di 2 anni, Rahaf Yahya Hassan. La rabbia dei palestinesi è esplosa in tutta la sua forza e i morti alimentano la fiamma della rivolta. Mentre i giornalisti si divertono a denotare lo scontro come una violenza improvvisa la realtà è un’altra. Ci si interroga se si tratti di una nuova Intifada ma a conti fatti questo non ha nessuna importanza. Si rincorrono le notizie sulle violenze nei media israeliani, e non solo. L’incitamento nei confronti dei più violenti ad agire contro i palestinesi è sistematico. Il volere è quello di farli ritornare alla quotidianità dell’occupazione in cui i soprusi si sopportano in silenzio, stringendo i denti. Sia Israele sia l’Autorità Palestinese si augurano di contenere la ribellione, ma non si può costringere negli argini un fiume in piena. Questa nuova ondata di rivolta non può essere incanalata solo in una mera questione di sicurezza interna israeliana. Non è più convincente la sua propaganda che vede la ferocia dell’esercito solo come risposta al ‘’terrore palestinese’’. Come dovere di difendere i suoi cittadini in pericolo. È molto di più. È il risveglio di un popolo che pareva inevitabilmente diviso da anni di politiche israeliane. Politiche fatte di muri e checkpoint mirate solo a dividere i palestinesi come entità politica e territoriale. Politiche perseguite con l’intento di spezzare l’identità e di creare dei ghetti dove rinchiudere gli ‘’arabi’’. Ma questi giorni dimostrano che i palestinesi in quanto unità esistono ancora e che sono di nuovo pronti a farsi sentire. Le manifestazioni in tutta la Cisgiordania, a Gaza e all’interno dello stesso Israele mettono in luce un nuovo sentimento di fratellanza fra il popolo palestinese. Dimostrano che l’intoccabile Israele non ha ancora vinto. Che i palestinesi lottano e rispondono alle violenze dell’esercito e che sono stanchi di tutti questi anni di occupazione. Che scendono per le strade ancora una volta per farsi riconoscere come popolo che è stanco dei suoi morti bambini e che gli inviti dei piani alti a mantenere la calma non rappresentano la volontà popolare. Voci di corridoio dicono che gli USA si stanno muovendo per evitare l’Intifada e riesumare i colloqui di pace. Questo limbo che vive in questi giorni la Palestina tra la rivolta e il ritorno alla calma è cruciale per gli sviluppi futuri. Ma qualunque sia il futuro, Intifada o no, non cambia il fatto che i palestinesi non sono terroristi. Che i palestinesi non possono esistere per la comunità internazionale solo quando muoiono a frotte nel giro di qualche ora. La mattanza dei palestinesi non è solo quando piovono bombe su Gaza ma nella quotidianità. È dal 1948 che è in corso l’oppressione di un popolo tra l’indifferenza di molti e l’appoggio di pochi. La rabbia è più che giustificata e il popolo palestinese ha tutto il diritto di lottare per la sua libertà, per la sua indipendenza contro l’occupante, per il diritto al ritorno e per quello di sentirsi e di essere al sicuro. Con qualsiasi mezzo. Checché dicano o facciano le alte sfere da sempre coinvolte affinché non cambi la realtà dell’occupazione. Noi in quanto esseri umani dovremmo mobilitarci e fare sentire la nostra voce solidale con i palestinesi. È tempo di riconoscere a pieno questo diritto alla rivolta palestinese e la domanda giusta da porsi non è come mai di questa rivolta, ma al contrario, come questa nuova rivolta ci abbia messo così tanto ad esplodere.

[Nell’immagine il disegno di un bambino di Gaza]

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