Bufale e autoassoluzioni degli indipendentisti dopo le elezioni regionali
1 Marzo 2019[Cristiano Sabino]
Dopo il disastroso risultato delle elezioni autonomistiche hanno circolato in rete diverse istanze di autoassoluzione da parte delle dirigenze delle tre liste a matrice indipendentista (e il discorso vale anche per la sinistra alternativa al PD).
La colpa della sconfitta è dell’astensionismo. Questa è una fesseria bella e buona. Si parte dal presupposto che chi si è astenuto avrebbe potuto o dovuto votare indipendentista. E chi l’ha detto? Chi si è astenuto o l’ha fatto perché non si riconosce in nessuna delle liste o semplicemente ha maturato un distacco ormai cronico con la proposta politica vigente in Sardegna. Se metà degli aventi diritto non va a votare vuol dire che probabilmente, almeno in parte, esiste un distacco cronico tra diretti e aspiranti dirigenti e significa che gli aspiranti dirigenti alternativi (indipendentisti e sinistra alternativa al PD) non sono capaci di intercettare e colmare questo distacco. Di chi è la responsabilità? Attribuirla paternalisticamente al “popolo minorenne” non ci fa avanzare di un passo e ci rende anzi ridicoli davanti all’opinione pubblica.
La pluralità di liste indipendentiste è un fattore positivo e garanzia di pluralità di democratica. Se ci fossero i numeri, se esistessero realmente differenze politiche sostanziali tra liste e se ci fosse un’altra legge elettorale puramente proporzionale si, lo sarebbe. In Catalunya ci sono tre liste indipendentiste, insieme totalizzano più del 50% dei voti e si dividono per programmi e orizzonti politici molto diversi tra loro (sinistra anticapitalista e contraria alla UE, sinistra moderata riformista, liberaldemocratici). In cosa differivano le tre liste indipendentiste presenti alle elezioni sarde? In cosa differivano i tre candidati presidente, tutti e tre riciclati dalla politica italiana dei partiti maggioritari, tutti e tre esponenti del moderatismo, tutti e tre europeisti e liberisti convinti? Se la posta in gioco non era prendere il potere e fare la rivoluzione ma garantire un presidio democratico indipendentista in Consiglio allora non esisteva alcuna ragione politica (e non di orticello) perché queste liste non si presentassero assieme.
La colpa è della legge elettorale che altrimenti avrebbe garantito una rappresentanza alle tre liste indipendentiste. La legge elettorale fa schifo, rasenta il fascismo e va cambiata, possibilmente con una battaglia unitaria di tutte le forze democratiche. Ma appunto perché si è andati a votare con questa legge elettorale perché non si è deciso di fare i conti con la realtà? I casi sono due: o le dirigenze indipendentiste erano convinte di superare con facilità da sole il 5% e allora vivevano su Nibiru incapaci di cogliere le tendenze politiche carsiche nella società sarda, o il fine non era quello di entrare in Consiglio ma di prendere almeno un voto in più dei propri competitor per primeggiare con il proprio gruppo di riferimento. In entrambe i casi si tratta di atteggiamenti irresponsabili e scollati dal senso della realtà e della storia.
Prima del risultato non si poteva sapere che il voto indipendentista sarebbe stato così basso. Questa è buffa. Alle politiche statali Autodeterminatzione correva da sola e ha preso circa il 2% dei voti pur essendo l’unica lista indipendentista in campo. Chi o cosa ha fatto credere che ci fossero praterie elettorali per ben tre liste indipendentiste, ripeto tutte e tre supportate da una comunicazione abbastanza simile, di matrice moderata e perfino incapaci (salvo alcune rare eccezioni) di intervenire in maniera dirompente nei conflitti e nei temi caldi della politica sarda?
La colpa è di chi critica che così facendo divide l’indipendentismo. Qui siamo alla caccia all’untore. Sulle pagine degli animatori di alcune delle liste bastonate alle elezioni si è letto di tutto. Chi ha osato avanzare blande critiche o richiedere una assunzione di responsabilità da parte dei responsabili di questo disastro che taglia fuori tutte le anime indipendentiste dalla rappresentanza democratica è stato definito “fallito”, “critico senza né arte né parte”, “professionista della critica”, “cercatore di visibilità”, “miserabile”, “sbirro infiltrato”, “annoiato pensatore facebookiano”, “professorino malato di narcisimo”, “noioso borghese”, “nullafacente”, “unitore perdigiorno”. Ci saranno anche i critici perdigiorno e gli amanti della polemica fine a sé stessa, ma la maggior parte delle critiche sono arrivate da militanti, attivisti, rappresentanti istituzionali, intellettuali, elettori attivi dell’indipendentismo. Gente che non ha mai fatto mancare il suo sostegno e che anche stavolta, pur lontana dalle proposte politiche dell’indipendentismo, ha cercato voti, ha sostenuto, ha aiutato come poteva. La caccia alle streghe non porta mai nulla di buono, né per le streghe vere o presunte né per gli inquisitori e i loro boia. Rispondere alle critiche con gli insulti e le crociate anti eretici è comportamento da sette e non da movimenti politici e con le sette si rimane attaccati al palo.
È il popolo che deve fare autocritica, perché i sardi hanno votato in maniera irresponsabile. Qui dirigenti PD e indipendentisti auto assolutori si toccano la mano. Ricordo quando Francesca Barracciu all’epoca del voto sulla Brexit postò l’immagine di una piazza gremita ad ascoltare Mussolini scrivendo che “anche questo è popolo”. Il disprezzo per il popolo, il paternalismo, l’idea che il popolo sia minorenne e da irretire e manipolare è una idea di destra, anzi, proprio una idea fascista. È chiaro che con simili premesse dilagherà senza più ostacoli Salvini e il salvinismo che almeno mantiene con il popolo un legame organico, certo strumentale e deviante, ma pur esistente. Non assumersi la responsabilità di un fallimento così disarmante e scaricare le proprie responsabilità sul popolo significa non accettare la realtà e rifugiarsi nel mondo dei sogni. Se poi questo lo fanno militanti e dirigenti che si rifanno alla storia e alla teoria del movimento operaio e contadino allora la cosa assume tratti grotteschi.
Noi abbiamo fatto una campagna ricca di contenuti, non possiamo rimproverarci nulla. I contenuti evidentemente o non erano quelli giusti o non erano veicolati nella maniera giusta. Ma più probabilmente ad essere giusta è la prima ipotesi. Alle scorse elezioni statali lo slogan di ADN era “la rivoluzione tranquilla” e le parole d’ordine delle tre liste indipendentiste non erano molto diverse da questa melassa moderata e narcotizzante. In un periodo in cui si temeva di non poter andare a votare perché il mondo delle campagne in rivolta sarebbe arrivato a bloccare i seggi, non mi sembrano slogan azzeccati. Perché per esempio non si è chiamata una mobilitazione indipendentista unitaria in sostegno alle ragioni agitate dai pastori? Erano tanti i temi sociali da prendere e da sbattere in faccia nei dibattiti televisivi agli avversari e anche ai troppi giornalisti compiacenti col potere costituito. Mondo delle campagne, salari da fame, attacco alla sanità pubblica, monopolio trasporti. Doveva emergere – e non è emerso – che la Sardegna si deve ribellare, che i sardi sono in ribellione, che siamo incazzati e siamo disposto a riprenderci ciò che ci spetta. Invece i dibattiti vertevano su questioni fredde, sulle competenze, sui bandi e sui fondi europei rispettando i protocolli e le etichette delle algide e noiosissime tribune politiche. E il tono generale degli indipendentisti era quello di persone assimilate dal sistema, arrivate, integrate, espressione non della ribellione di un popolo ferito ma membri di quella casta vestita bene e frequentante gli ambienti che contano che tanto fanno infuriare (giustamente) le persone. Qui torniamo alla selezione dei candidati presidente che in generale hanno rappresentato una versione moderata e annacquata dell’indipendentismo. A questo punto tanto valeva presentare una sola lista, oppure si avrebbe dovuto avere il coraggio di assumere posizioni più decise e radicali, capaci di catalizzare il dissenso. Come è palese non è stata fatta né l’una né l’altra cosa.
L’indipendentismo fuori dalle coalizioni non funziona. È una falsa pista perché la causa di tutti gli attuali mali è proprio il fatto che diversi capi bastone dell’indipendentismo hanno cercato prima un posticino comodo nelle coalizioni (la maggioranza nel centro sinistra) e così hanno ammazzato il trend di crescita che l’indipendentismo aveva dall’inizio degli anni Duemila. La questione non è entrare nelle coalizioni italiane o no. La questione è avere una visione o no. Che visione ha oggi l’indipendentismo? Quali sono i suoi cavalli di battaglia? Quali le sue parole d’ordine? Le elezioni si vincono prima ancora che in campagna elettorale entrando nell’immaginario delle persone. Fare una lista a ridosso delle elezioni, raccattare qui e lì dei candidati, scrivere un programma più o meno fatto bene, tirare fuori dal cilindro un front-man e auto convincersi che così si avrà successo, organizzare salotti con Confindustria e Coldiretti, è un approccio che non funziona. L’indipendentismo deve essere un’altra cosa rispetto all’offerta politica vigente, deve essere di rottura e dirompente, deve agitare bandiere che nessuno agita, deve poter essere riconoscibile, altrimenti diventa una sottomarca sfigata dei partiti di sistema. Oggi in agenda non c’è il tema di entrare sotto l’ala protettiva di una coalizione facendosi assimilare definitivamente, ma di riconquistare una visione di che cos’è e cosa vuole l’indipendentismo sardo.