Capitale umano e sviluppo territoriale
1 Marzo 2017Gianfranco Sabattini
Dopo la crisi, la visione localistica nel rilancio dell’economia nazionale non deve tradursi in un vincolo alla necessità che le politiche pubbliche che si vorranno attuare manchino d’essere formulate in una visione globale dell’intero sistema economico, sia pure articolate territorialmente. L’auspicato ritorno al territorio deve, infatti, esprimere l’urgenza che gli interventi decisi per le singole aree territoriali siano coordinati in una visione d’insieme delle politiche adottate a livello nazionale; visione che, inoltre, non dovrà trascurare ciò che, in passato, malgrado la sua importanza, non è mai stato oggetto di considerazione, com’è accaduto al capitale umano.
A sottolineare la necessità di migliorare la “qualità” del capitale umano sulla quantità delle forze di lavoro disponibili, soprattutto con riferimento ai singoli territori, sono molte organizzazioni internazionali, le cui analisi dimostrano da tempo il ruolo propulsivo che può essere svolto dalla qualità del capitale umano sulla quantità, sottolineando la pressoché totale irrilevanza della considerazione dei soli parametri quantitativi, come, ad esempio, quello concernente il livello di alfabetizzazione dell’intera popolazione, disgiunta dalla qualità del tipo di istruzione, funzionale alla promozione della crescita del reddito pro-capite.
L’importanza della qualità del capitale umano è stata riconosciuta dall’Unione Europea che, com’è noto, dopo aver valutato positivamente lo stimolo che può originare dal “circolo virtuoso” che può essere attivato dalla relazione che lega il capitale umano allo sviluppo dei territori, ha incluso tra le strategie d’intervento adottabili da tutti gli Stati membri anche quella fondata sull’approfondimento e miglioramento della conoscenza per l’intero stock di forza lavoro disponibile. Strategia, quest’ultima che, in tempi come quelli attuali di contenimento della spesa pubblica, assume un particolare rilievo, considerando che il miglioramento della qualità della forza lavoro può essere perseguito, a parità di spesa pubblica per l’istruzione, solo attraverso una riorganizzazione complessiva interna del sistema dell’istruzione vigente.
Al tema dell’importanza della qualità del capitale umano è dedicata un’analisi condotta, per conto della libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli di Roma, da Massimo Egidi, Livia De Giovanni, Andrea Baratti e Francesca G.M. Sica, i cui risultati sono stati pubblicati nel numero di ottobre/dicembre 2015 della “Rivista di Politica Economica”, col titolo “Capitale umano e attrattività dei territori”. L’analisi, dichiarano gli autori, “ruota intorno all’assunto fondamentale che oggi il fattore lavoro rileva non tanto per la sua componente materiale, misurabile da un punto di vista quantitativo, tramite la conta delle ‘teste’ che compongono la forza lavoro, ma piuttosto da quella immateriale, misurabile con indicatori qualitativi, quali il livello di abilità cognitive e competenze”; abilità e competenze che, pur essendo incorporate nelle unità della forza lavoro, non tutte sono innate; per lo più esse sono accumulabili attraverso ”istruzione ed esperienza”.
La dotazione di capitale umano di un dato Paese, a differenza del capitale naturale, non è una quantità fissa, in quanto può essere accresciuta attraverso l’investimento in istruzione che, data la natura di bene pubblico del “prodotto” dell’istruzione, può dare luogo ad un rendimento maggiore di quello derivante da un identico investimento valutato però unicamente dal punto di vista privato. Ciò perché, a differenza degli investimenti privati in istruzione, decisi in funzione di finalità produttive, quelli effettuati dal settore pubblico sono volti alla formazione di esternalità positive, in funzione della creazione del “capitale sociale”, formante l’insieme delle relazioni di fiducia e reciprocità tra soggetti e tra soggetti ed istituzioni, che supportano l’”azione collettiva e costituiscono una risorsa per la creazione di benessere”.
L’importanza del capitale umano nel promuovere il processo di crescita e sviluppo, nonché quella della retroazione dalla crescita sullo sviluppo, erano considerate in passato in funzione della “produttività del lavoro”, senza che di questa venisse indicato il processo di formazione. Solo di recente, affermano gli autori, a far data dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, è stata riconosciuta la rilevanza per gli studi economici dell’assimilazione, nel processo di accumulazione, promosso attraverso l’investimento in istruzione, del capitale umano a quello fisico, dove il capitale umano è espresso da due “pilastri”.
Il primo pilastro, identificato nell’istruzione obbligatoria di base (licenza elementare e media), incorpora nella forza lavoro la capacità di imitazione delle tecnologie prodotte da altri sistemi economici, nonché quella di rendere possibile la diffusione delle tecnologie esistenti a tutto il sistema economico; il secondo, identificato, invece, nei segmenti dell’istruzione secondaria superiore e terziaria, assicura alla forza lavoro la capacità di generare innovazioni, di creare nuovi processi produttivi e di inventare nuovi prodotti e tipi di servizi.
Quanto alla crescita ed allo sviluppo promossi dal miglioramento della qualità del lavoro – affermano gli autori – “le evidenze empiriche mostrano che i Paesi più ricchi (in termini di reddito pro capite) non sono necessariamente anche quelli con una più elevata qualità del capitale umano”; ciò perché in un “contesto sempre più permeato dalla conoscenza, giocano un ruolo decisivo le istituzioni educative ma anche le imprese: le prime perché sono tipicamente i luoghi dove la conoscenza viene ‘coltivata’, accumulata e trasmessa; le seconde, perché hanno il compito di applicare i risultati della ricerca ai processi produttivi, ai prodotti, all’organizzazione”.
La qualità del capitale umano gioca un ruolo insostituibile soprattutto nella promozione dello sviluppo dei territori, essendo la produttività “la variabile chiave delle competitività territoriale”; la produttività dei territori, infatti, come la definiscono gli autori, è l’abilità del lavoro di “offrire un ambiente attrattivo e sostenibile per le imprese e le persone ivi residenti per vivere e lavorare, ottimizzando le risorse endogene per competere e prosperare nei marcati nazionali e internazionali adattandosi ai cambiamenti di questi mercati”; conseguentemente, l’attrattività dei territori si identifica con la loro capacità di competere, e questa, a sua volta, catalizza le preferenze dei loro potenziali utenti, in qualità di preesistenti o nuovi investitori, in quanto valutano appunto i territori ottimali o più attrattivi in qualità di imprenditori che devono decidere se e dove investire; oppure in qualità di residenti che devono decidere se continuare a vivervi, oppure se trasferirvi la loro residenza.
Posto quindi che la produttività è l’elemento che collega il capitale umano alla crescita e allo sviluppo dei territori, per via della loro competitività determinata dalla qualità del lavoro, ciò che conta sottolineare è che la relazione esistente tra il capitale umano, da una parte, e la crescita e lo sviluppo dei territori, dall’altra, oltre che essere una relazione diretta, è anche “una relazione reversibile”; nel senso che il miglioramento del capitale umano concorre, sì, a determinare l’aumento della competitività, ma l’aumento di quest’ultima, alla lunga, determina un ulteriore incremento del capitale umano, e così via.
In questa prospettiva, perciò, affermano gli autori, l’aumento del capitale umano “può essere visto come l’anello ‘mancante’ del circolo virtuoso tra produttività-competitività-reddito pro capite, considerato che i Paesi più competitivi, secondo le graduatorie stilate dagli organismi internazionali più accreditati, sono anche quelli caratterizzati, non solo da un tenore di vita più alto, misurato dal reddito pro-capite, ma altresì da un elevato capitale umano”. Ciò è confermato dalle numerose indagini sul campo effettate a livello internazionale, nazionale e provinciale.
A livello internazionale, le indagini, condotte per iniziativa del Forum economico mondiale (WEF), conosciuto anche come Forum di Davos, hanno messo in evidenza la relazione intercorrente tra l’”indice sintetico di capitale umano” (HCI) e l’”indice sintetico di competitività” (GCI), considerando il primo uno degli assi portanti della competitività di ogni Paese e, fra essi, quelli riguardanti l’istruzione primaria e lo stato di salute della popolazione, i più importanti. Secondo il WEF, una forza lavoro in stato di salute è condizione primaria per la produttività-competitività-attrattività di ogni Paese.
Il buono stato di salute della forza lavoro, infatti, costituisce il punto di partenza sul quale può essere impartita con successo l’istruzione di base necessaria per accrescere la produttività del lavoro utilizzato dalle imprese nelle combinazioni dei fattori produttivi. L’istruzione secondaria, quella terziaria e la “formazione continua”, oltre ad elevare la produttività del lavoro utilizzato dalle imprese, concorrono anche a migliorare la produttività dell’intero sistema economico.
A livello territoriale, la commissione Europea preposta all’elaborazione dell’”indice regionale di competitività” (RCI) ha stimato un coefficiente di correlazione tra istruzione terziaria-formazione continua e la competitività-attrattività territoriale superiore a quello stimato per la correlazione tra quest’ultima e l’istruzione primaria e secondaria. Sulla base di queste stime è stato possibile accertare che i territori europei (regioni) “con un’elevata intensità di capitale umano” sono quelli che registrano un alto valore dell’”indice di competitività-attrattività regionale”.
Tutte le considerazioni sin qui svolte sull’importanza dell’istruzione-formazione della forza lavoro ai fini della crescita del capitale umano, se riferite all’Italia, secondo l’analisi condotta da Egidi, De Giovanni, Baratti e Sica, consentono di affermare che l’Italia ed i suoi territori, in particolare quelli della parte più debole del Paese (ovvero, quella meridionale), mostrano un ritardo in termini di capitale umano, soprattutto sul piano del suo livello qualitativo. Particolarmente gravi sono i ritardi accusati dai territori maggiormente arretrati, non solo per la bassa spesa pubblica in istruzione, ma anche e soprattutto perché il tipo di istruzione impartita è stata normalmente non appropriata alla qualità della forza lavoro presente nei singoli territori.
Ciò che differenzia la produttività del lavoro di un dato territorio rispetto ad altri è il modo in cui la forza lavoro in esso presente è stata istruita, secondo forme poco appropriate all’eredità storica della popolazione. Ciò significa che, all’interno di ogni territorio, la crescita e lo sviluppo dovranno essere intesi come processi generativi di benessere dipendenti, non solo dall’impiego delle risorse materiali disponibili, ma anche e soprattutto dal miglioramento della qualità dalle risorse umane radicate nel territorio, che traggono motivo d’essere utilizzate in funzione del bisogno di beni e servizi delle popolazioni presenti.
Il bisogno di beni e servizi localmente avvertito deve rappresentare il principio di organizzazione del piano d’investimenti che abbia come fine la promozione del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni; la via d’uscita dai ritardi accusati dai territori italiani, soprattutto da quelli più arretrati sta, come sottolineano gli autori al termine della loro analisi, nel miglioramento della qualità del capitale umano, non tanto attraverso i corsi ufficiali di istruzione nell’attesa utopistica che le scuole e le università forniscano un capitale umano “su misura”, quanto attraverso il ricorso a cicli appropriati di istruzione continua e di riqualificazione, aperti al recepimento degli stati di bisogno provenienti “dal basso”.