Cara Carla
16 Novembre 2008In questi giorni Carla Casalini ci ha lasciato. Siamo tutti più soli ma non possiamo dimenticare la passione con cui affrontava la vita. Parlava del suo lavoro al Manifesto come ‘Una storia d’amore, da rinnovare ogni giorno’. La ricordiamo ai lettori del manifestosardo pubblicando l’articolo che ha scritto per i 35 anni del quotidiano.
Carla Casalini
Detto molto sobriamente: questa è una storia d’amore.E come tutte le storie d’amore è nata da un incontro tra quelle donne e uomini radiati, usciti dal partito comunista, e le ragazze e i ragazzi del Sessantotto-Sessantanove, dei primi anni Settanta. L’incontro è felice perché gli uni e gli altri in quel momento stanno osannando se stessi e, come ciascuno sa dalla propria vita personale, questo è capace di produrre una qualche magia. Le differenze ci sono, pur immerse allora nella forza destabilizzante e gioiosa di «stato nascente» del movimento, e sempre si vedranno: contraddizione e insieme tesoro della vicenda manifesto. Né possono banalizzarsi a puri gap «generazionali» – secondo la nomenclatura del consumo che sempre più tenta di irrigidire i desideri in target. Le differenze attraverso tutti e ciascuno. E fin dall’inizio segnano lo stesso gruppo uscito dal Pci: che via via si separa, una volta fuori dall’ex grande partito, che evidentemente nella cassetta degli attrezzi aveva un collante a presa forte; o forse già si anticipano quelle vie diverse che negli anni successivi prenderanno anche tanti più giovani. Ma differenti sono anche i ragazzi e le ragazze di quel primo incontro. C’è chi ha già sperimentato una qualche realtà politica strutturata; e chi invece si è radicato direttamente nel movimento, con riferimenti e esperienze più ibride. Comune, soprattutto per chi viene dal nord, è il rapporto con le lotte operaie. Altri riferimenti, non tutti condivisi, contano invece per molti di noi. C’è Marx certamente, ma pochissimo Gramsci ad esempio, e invece il richiamo europeo con Luxemburg, Korsch, nonché Bloch; da un lato la scuola di Francoforte in tutta la tastiera dei suoi esponenti, accanto a Foucault «e i francesi». In Italia c’è lo sconvolgente movimento di Basaglia che si applica a svuotare i manicomi; fuori si guarda a Laing e all’antipsichiatria inglese, all’antiautoritarismo e alle suggestioni americane. C’è il rock. C’è la pratica del femminismo. Un catalogo zeppo. L’esito, per quelle e quelli che non avevano «a che vedere» con il Pci era una pretesa radicale: strappare in sé, l’«individuo», alla scarnificazione e solitudine cui pretendeva inchiodarlo il presente di un’accumulazione capitalistica vorace di ogni legame sociale, rapporto con culture e forme di vita. Non leggibile classicamente nel solito conflitto capitale-lavoro. Insomma, questa storia d’amore e di politica non è nata da un unico ceppo, l’allora grande partito comunista. Anzi, i compagni «radiati» là si erano a lungo battuti perché avvertivano mutamenti che richiedevano analisi più rischiose ma anche esposizioni personali più rischiose, e hanno corso il rischio, sono usciti per strada: per questo alcuni di noi «del Sessantotto» li hanno incontrati. La storia del manifesto – l’ho già scritto, lo ripeto – nasce propriamente da questo incontro. Perciò la sua identità è per definizione mobile, pretende il riconoscimento reciproco; e la sua origine sta anche davanti a noi, non solo dietro, e chiede di essere sempre ricostruita, pena la perdita del senso di questa impresa: nata nella storia, in un noi costruito nel tempo, la sua esistenza non è ineluttabile, deve essere rischiata ogni giorno. E’ il nostro bene prezioso per il futuro, nei confronti, nei conflitti anche laceranti, che hanno solcato il passato e che via via si ripresentano. Semmai c’è da chiedersi se i momenti di avvertita a tratti decadenza in questa impresa non segnalino che non sempre onoriamo la sua delicata origine promiscua, quel noi sempre da ricostruire, e invece per stanchezze o rassegnazioni mutuiamo pratiche correnti di «gruppo», mimiamo l’autoconservazione della «famiglia», delle burocrazie, o finiamo per rifugiarci in origini pure, separate, a identità chiusa: i comunisti, i sessantottini, gli altri. Perché proprio quell’origine e questa vicenda non univoca, il rischio dell’incontro e dell’agire di donne e uomini differenti, che da subito segna l’esperienza politica e anche editoriale – la nascita del quotidiano e i saperi le passioni le ore di vita che ne hanno permesso, ne permettono l’esistenza – e non è l’ultima delle ragioni per cui il manifesto c’è ancora oggi.