Carceri: Diritti umani negati e covid-19

16 Marzo 2020
[Graziano Pintori]

Il covid -19 ci costringe a fare i conti solo con le nostre ansie, a volte irragionevoli, senza concedere almeno una riflessione sulle ansie annidate nell’altra fetta di società che libera non è: i detenuti. Se malauguratamente il covid -19 dovesse manifestarsi nelle strutture carcerarie si verificherebbe la catastrofe del sistema penale, che inevitabilmente trascinerebbe anche il sistema sanitario nazionale, già sottoposto a sforzi estremi.

Che le carceri siano una bomba sociale e, di questi tempi, anche sanitaria, lo hanno evidenziato le rivolte dei detenuti: morti, devastazioni, evasioni, feriti sono il risultato di una guerra tra due belligeranti avulsi da mediazioni, leggi e costituzioni. In quei frangenti la violenza pareva essere l’unico rimedio per porre fine alla violenza. Stando alle cronache tutto avrebbe avuto inizio dalle manovre contestative gestite da boss delle grandi organizzazioni criminali, sempre pronti a fare i paladini contro le sofferenze storiche dei detenuti, vedi il sovraffollamento, per dilatare il loro potere anche dentro le carceri.

L’annullamento dei colloqui tra detenuti e familiari, per evitare il diffondersi del contagio, ha acceso la miccia della protesta, trattandosi di un provvedimento che poneva fine ai rapporti affettivi tra carcerati e mondo esterno, che in molti casi costituiscono l’unica fonte da cui traggono l’energia per sopravvivere alla loro condizione. Un provvedimento “antivirus” necessario, ma difficile da accettare passivamente, essendo stato percepito come una punizione, piuttosto che come un preventivo atto sanitario. L’omessa informazione sulla cecità e rapidità di contagio del covid – 19 ha snaturato l’efficacia del provvedimento, perché imposto in assenza della necessaria consapevolezza per affrontare i pericoli della pandemia in corso.

Nei confronti dei cittadini reclusi bisognava conciliare la tutela della salute con gli altri diritti fondamentali; cioè se per tutelare il detenuto dal contagio richiede la sospensione dei colloqui e il lavoro esterno, come pure la sospensione delle attività dei volontari, scolastiche e correlate, dall’altra, in contemporanea, bisognava assumere una serie di provvedimenti per bilanciare in positivo le misure testé elencate. Per esempio: disporre immediatamente l’ampliamento dei tempi e del numero dei contatti telefonici e l’uso di Skype tra detenuti e i loro cari. Si tenga presente che le disposizioni correnti prevedono l’uso del telefono per per soli 10 minuti settimanali.

Altresì considerare, per chi avesse maturato le condizioni, l’adozione delle misure di detenzione domiciliare e la semilibertà, affidamenti e/o i periodi di prova presso i servizi sociali. Sarebbe un metodo, anche sanitariamente necessario, per interrompere il via vai da e per le carceri, oltre a prospettare soluzioni concrete per disinnescare l’esplosività del sovraffollamento: fonte di tutte le problematiche carcerarie. Una miccia accesa che l’emergenza sanitaria di questi giorni ha solo contribuito a fare emergere in modo virulento.

Parlare di carceri ai tempi del corona virus è come ascoltare suoni lontani, estranei al nostro vivere, già in sovraccarico di ansie a causa della pandemia. Figuriamoci in tali condizioni, non dico parlarne, accennare ai Centri di Permanenza per il Rimpatrio, i cosiddetti CPR: quante strizzate d’occhi e fastidio uditivo causerebbe a certi benpensanti assediati dal covid- 19. Il loro sistema nervoso ai tempi del corona virus non può essere ulteriormente scosso dal sapere che in quei luoghi di detenzione annaspa una fauna umana estranea, di nome e di fatto, alla nostra società. Una sottospecie di irregolari, come “su burdu e mamma rua”, sprovvisti di documenti, o permessi di soggiorno, o condannati in primo grado ecc.

Sarebbe un attentato all’integrità psico fisica sentir parlare di persone sostanzialmente recluse, in attesa di espulsione verso il paese d’origine, solitamente in guerra, o in condizioni di povertà estreme causate dalle siccità, dalle locuste o da qualsiasi altra maledizione biblica. Di questi tempi, per certi occidentali, è come avere sabbia negli occhi dover ascoltare storie di persone segregate in edifici nella condizione di inferiorità legale e, come tali, impediti di rivendicare il diritto alla libertà, essendone privati pur senza aver commesso reati penali. Diventa insopportabile tutto questo, perciò meglio voltar le spalle a coloro che pagano la colpa di essere nati lontani dal nostro occidente, privati di garanzie, diritti e doveri.

Sono condannati a stare nel limbo, dove tra speranza e sogno non ci sono differenze. Ambedue alimentano il desiderio che accomuna molti di questi “pacubenes”: essere trasferiti in un carcere vero e proprio, dove, pur soffrendo, si sopravvive in un contesto un po’ più umano.

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