Catalogna, prove di libertà con il governo Sanchez
26 Giugno 2021[Maurizio Matteuzzi]
“In definitiva, l’iniziativa del governo mi pare costituzionalmente legittima, giusta, mossa dalle migliori intenzioni e opportuna, intelligente.
La politica è precisamente questo, iniziativa, solo con essa si può aspirare a cambiare le cose”. Con queste parole l’ex-premier socialista Jose Luis Rodríguez Zapatero concludeva l’ articolo in cui spiegava le cinque ragioni per cui, al di là della “complessità emozionale”, concordava in toto con la mossa annunciata quello stesso lunedì 21 giugno dal premier Pedro Sánchez a Barcellona, nella tana del lupo: l’indulto (indulto che cancella la pena, non amnistia che cancella il reato) per i nove indipendentisti catalani da quasi quattro anni in carcere dopo essere stati condannati dalla giustizia spagnola a pene spropositate (da 9 a 13 anni con l’accusa di “sedizione e malversazione”) per il velleitario ma sostanzialmente pacifico tentativo di indipendenza unilaterale della Catalogna nell’ottobre 2017.
“Questo è il momento”, ha detto Sánchez dal palco del Gran Teatre del Liceu nella capitale catalana. “Da qui dobbiamo riprendere il cammino per recuperare la convivenza e la normalità… questo è un esplicito messaggio della volontà di concordia della democrazia spagnola”. Una proposta di dialogo politico, di “reincontro” fra la Spagna e la Catalogna per “aprire la strada a un nuovo progetto di paese”, forse un’allusione a quell’impegno mai onorato dal PSOE di andare verso una Spagna federale e plurinazionale.
Quella di Sánchez è una mossa ad alto rischio che ha spaccato il paese in modo trasversale. La destra (Partido Popular e quel che resta di Ciudadanos) e l’ultradestra fascio-franchista (Vox) ululano alla luna contro la svendita del paese “agli indipendentisti e terroristi”, minacciano ricorsi ai tribunali, mobilitazioni di piazza e, forti dei sondaggi che per la prima volta danno il PP davanti al PSOE, chiedono nuove elezioni al momento del tutto improbabili, salvo sorprese, prima della scadenza naturale della legislatura alla fine del 2023.
Sull’onda del trionfo elettorale del 4 maggio a Madrid, la nuova star dell’ala più oltranzista del PP, Isabel Díaz Ayuso, appena insediata alla presidenza della Comunità (Regione), si è scagliata contro Sánchez per “la vergogna e l’abuso” degli indulti chiamando in causa perfino il re Felipe per ingiungergli di non firmarli (ciò che costituzionalmente gli è precluso). Incurante dell’imbarazzo del suo stesso partito per questa gaffe clamorosa e dimentica delle migliaia di indulti (qualcuno li ha contati: 10.652 solo dal ’96, recordman il premier José María Aznar, il mentore politico di Ayuso) firmati dai governi del PP e del PSOE in favore di terroristi, assassini, torturatori, ladri, corrotti…
Sancendo la fine dell’impraticabile via unilaterale all’indipendenza, dopo 100 giorni di stallo dalle elezioni regionali di febbraio, anche il fronte catalano si è rotto: da una parte l’ala dura dell’indipendentismo (di destra, Junts per Catalunya, e di ultra-sinistra, CUP), che respinge in toto le avances di Sánchez; dall’altra, per quanto uniti nella (precaria) maggioranza nazionalista che regge la Generalitat, l’ala di centro-sinistra, ERC , la Esquerra Republicana di Oriol Junqueras, uno dei beneficiari dell’indulto, e di Pere Aragonès, il nuovo presidente della Generalitat. Che hanno risposto all’invito di riattivare la “mesa de dialogo” fra i due governi in cui si parlerà anche di amnistia (esclusa da Sanchez: l’indulto è il massimo possibile) e diritto all’autodeterminazione (ma secondo “il modello scozzese” di referendum concordato).
La mossa di Sánchez, per quanto attesa, ha spiazzato greci e troiani. Contraria all’indulto la maggioranza dell’opinione pubblica spagnola; favorevole la maggioranza (68%) della società catalana stanca di guerra, i vescovi catalani, la patronal catalana, ma anche (dato solo apparentemente sorprendente) la CEOE, ossia la patronal spagnola, e i sindacati CCOO e UGT. Fra i contrari (sorpresa?) buona parte dell’elettorato del PSOE e dell’aristocrazia decaduta del partito (gli immarcescibili Felpe González e Alfonso Guerra, vari baroni regionali socialisti). E anche (nessuna sorpresa) la gran parte della magistratura spagnola, ripetutamente criticata a livello europeo e internazionale per la gestione e le condanne abnormi del caso catalano.
Yolanda Díaz, la vice-presidente del governo e ministra del lavoro che ha preso il posto di Pablo Iglesias dopo il suo improvviso ritiro dalla politica attiva, l’aveva detto subito dopo il trionfo della destra a Madrid il 4 maggio scorso: “La legislatura e i cambiamenti cominciano adesso”. Sono cominciati col botto degli indulti.
La rapidissima evaporazione di Ciudadanos preclude a Sánchez la tentazione e la possibilità di una eventuale virata verso il centro e l’obbliga a tenere ferma la coalizione con PODEMOS ( che, con i suoi problemi interni, domenica 13 è andato al primo congresso post-Iglesias), quindi ad accelerare l’agenda sociale e progressista concordata al momento dell’inizio della legislatura, nel gennaio 2020.
La débâcle di Madrid e il recupero del PP, l’avanzata di Vox, lo sblocco dell’impasse catalana dopo quattro anni, la fine della devastante pandemia (80 mila morti) e il buon andamento della campagna di vaccinazione (entro la fine dell’estate il 70% della popolazione dovrebbe essere vaccinato), l’imminente arrivo dei primi fondi europei assegnati alla Spagna (in totale 140 miliardi fra il ’21 e il ’26), i promettenti indicatori economici segnalati dal Banco de España (previsioni della crescita del ’21 riviste dal 6 al 6.2% , quelle del ’22 dal 5.3 al 5.8%): in positivo e in negativo sono tutti fattori che obbligano a muoversi e far presto.
In questo (terribile) anno e mezzo il governo PSOE-PODEMOS qualcosa ha fatto: la legge sui rider, sul lavoro a distanza, la regolamentazione dell’eutanasia, la legge sul cambio climatico, l’ “Ingresso Minimo Vital”, la protezione sociale contro la disoccupazione attraverso la ERTE (una sorta di cassa integrazione), la Ley Trans sul genere. Ma molti degli impegni presi restano ancora sulla carta e ora, con l’uscita dalla pandemia e l’arrivo dei fondi europei in vista, sembra venuto il momento di onorarli: la revoca della reforma laboral imposta nel 2012 dal “popolare” Mariano Rajoy, e della “Ley Mordaza” del 2015 (sempre Rajoy), la Legge Museruola “per la protezione della cittadinanza”; la legge sulla regolamentazione degli affitti e il blocco degli sfratti, un aumento che renda le pensioni più decenti, una riforma fiscale “giusta” e l’innalzamento dell’imposta sui grandi patrimoni, un impegno ad affrontare il nervo scoperto della “plurinacionalidad” della Spagna a partire dal dialogo e dall’accordo. Come l’ha incalzato in una seduta parlamentare di fine maggio Mertxe Aizpurua, deputata alle Cortes per gli indipendentisti baschi di EH Bildu (parte della maggioranza parlamentare che sostiene il governo): “Lo faccia, señor Sánchez, e lo faccia in fretta. Perché se no la destra si mangerà lei e spazzerà via i diritti e le libertà che ci sono costati tanto cari”.