Cazzullo: fra retorica patriottarda e romanità
16 Dicembre 2023[Francesco Casula]
Il giornalista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, due anni fa, rispondendo a un lettore che si diceva “spaventato” dagli indipendentisti sardi, si era detto amareggiato dal fatto che “esistano italiani, nel caso specifico sardi, che vorrebbero abbandonare la patria e lo Stato che i nostri antenati hanno costruito e difeso a prezzo di molto sangue”.
Gli risposi con una breve lettera – che correttamente pubblicò sul Corriere della sera il 5-11-2021– assicurandogli che non aveva ragione di amareggiarsi. Per il semplice motivo che i sardi sono sardi non italiani. E proseguivo: O forse che prima eravamo spagnoli? E ancor prima catalano-aragonesi? O fenici durante la loro “colonizzazione”? O cartaginesi, o romani, o vandali o bizantini durante la loro dominazione?
Noi Sardi – aggiungevo – siamo certo cittadini italiani, ma di nazionalità sarda. Ho l’impressione che Lei confonda Stato con Nazione. Quando la differenza è evidente. E, come recita l’apoftegma latino, “De evidentibus non est disputandum”!
E così concludevo: “Ricordo comunque che la Sardegna, storicamente, è entrata (e finanche coattivamente), nell’orbita italica – a parte la breve parentesi pisana e genovese nei secoli XI-XIII – solo agli inizi del 1700 quando venne ceduta al Piemonte, per un baratto di guerra, ai Savoia che diventarono re e si dimostrarono in 226 anni di dominio e sgoverno, tiranni ottusi famelici e sanguinari. Siamo Sardi e siamo, da sempre una Nazione: per storia, diversa e dissonante rispetto alla coeva storia italiana ed europea; per lingua (nata e affermatasi quasi 300 anni prima della lingua italiana e per più di 400 anni lingua ufficiale e cancelleresca nei regni giudicali); per tradizioni”.
Ora Cazzullo torna alla carica con un libro “Quando eravamo i padroni del mondo: Roma: l’impero infinito”, avventurandosi improvvidamente in una encomiastica esaltazione dell’Impero romano, maestro ed esempio, a suo dire, di integrazione e di accoglienza, “a prescindere dal colore della pelle, dal dio che si pregava, dal posto da cui veniva”.
Ma Cazzullo, di quale integrazione e accoglienza parla? Spero che non si riferisca a quella riservata ai popoli che sterminò, agli eccidi che commise, del resto in linea con la sua mission sacra, affidatagli dagli stessi dei come, ben riassume Tito Livio nell’introduzione alla monumentale opera Ab urbe condita libri sulla Storia di Roma :tu regere imperio populos, Romane, memento, parcere subiectis et debellare superbos. (Ricordati romano che tu dovrai dominare i popoli perdonando chi si sottomette e sterminando i “superbos”). Ovvero chi resiste. Chi est reverde. (Chi è ribelle). Come molti sardi saranno. Contro cui fu consumato un vero e proprio etnocidio, uno spaventoso degogliu (strage).
Con i romani, infatti, la nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. Negli anni 177 e 176 a.C – scrive lo storico Piero Meloni – un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.
Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono” il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio Sardi venales: Sardi da vendere, a basso prezzo. Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Tito Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i Sardi.
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade, cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante. Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre, foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’Impero romano e isolata dal mondo. È da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
A questo flagello i Sardi opposero cinquecento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Giovanni Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.C., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori).
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).
Con buona pace di Cazzullo e della sua romanità. Che impudicamente esalta: a cominciare dall’antico simbolo romano, l’aquila, che avrebbe consegnato in eredità a tutti gli imperi del mondo. E che – ma questo Cazzullo non lo ricorda – venne ripreso dal regime fascista ed usato in molte costruzioni, riprodotto sul retro della lira e sulla bandiera da guerra della Repubblica Sociale Italiana.