Cervelli infuriati
16 Novembre 2011Federico Zappino
In un momento politico ed economico di un grigiore vigliacco viene dato alle stampe un libro coraggioso, un’analisi lucida, condotta e vissuta dall’interno: La furia dei cervelli (manifestolibri 2011), scritto a quattro mani da due operatori del Quinto Stato, Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, e da Giuseppe Allegri, docente a contratto a La Sapienza, entrambi freelance.
“Gli intellettuali sono i primi a fuggire, subito dopo i topi, e molto prima delle puttane”: esordisce con una citazione polemica di Majakovskij questo trattato salutare, che si propone di regolare la correzione degli occhiali del lettore, in particolar modo di quello italiano e istruito, e di illustrargli quei processi giuridici e culturali perversi che lo hanno condotto all’attuale situazione di precarietà profonda, principalmente economica e occupazionale, e poi – come se le cose non andassero da sempre di pari passo – politica e culturale.
Questa precarietà dei dottori trentenni impiegati a tempo che non avranno pensione, e delle dottoresse, alle quali per un posto nel precariato viene chiesto, con fare minaccioso, se per caso abbiano in cantiere il progetto di avere un figlio. Questa precarietà che, con buona pace di chi la ritiene un’analisi superficiale, irride spensierata qualsiasi ottimismo della modernità politica riposto nel progresso economico e morale, nei diritti, nella libertà: anzitutto quello relativo al “governo delle leggi” e non al “governo degli uomini”, dato che oggi, un lavoratore precario (sia egli un lavoratore della conoscenza, un commesso o – com’è di moda oggi – un marketing developer) è totalmente alla mercé del paternalismo del padrone e della sua bontà e non di un sistema di leggi che lo valuti e lo tuteli sulla base di criteri “oggettivi”. Questa precarietà che non è flessibilità, che ci riguarda in tanti/e e che significa mutilazione dei desideri, castrazione della progettualità, igienizzazione dei corpi e dei sentimenti, cancellazione del futuro. E forse è utile dire a chiare lettere che questa precarietà è al contempo causa ed effetto di un imbarbarimento culturale tutt’altro che elitario che ha ormai il sapore dolciastro dell’irreversibile (aggettivo che, non a caso, ricorre spesso tra le pagine del testo: «rottura irreversibile», «coma irreversibile»…)
Sia chiaro: al lettore non viene richiesto (né, concesso) di “fuggire”. Il che costituirebbe una salvezza individuale ad un problema sistemico: e questo, ora, sarebbe molto più nocivo di un innocuo sotterfugio. Il nobile individualismo – è tempo di dircelo apertamente, senza per questo legittimare i più beceri comunitarismi – ha assistito inerme alla svendita del valore assai alto dell’autodeterminazione dei singoli – continuamente vessata – in nome di un’omologazione tra singoli, e all’implementazione di politiche del lavoro e culturali ispirate ad un ben meno nobile neocorporativismo. Ciò che il lettore riceve, pertanto, è semmai un’interpellazione, per mutuare un termine cinematografico, uno sguardo diretto da parte degli autori, i quali, svelando il proprio posizionamento, quello dei “vinti”, lo esortano a prendere parte attiva al processo cognitivo e politico: gli viene chiesto, in sostanza, di “infuriarsi”, e anzitutto contro se stesso, «perché è il furore l’unica matrice del cambiamento, l’inizio dell’autotrasformazione, la liberazione dai peccati degli altri. […] La sua originaria espressione si oppone ai culti ufficiali, rappresenta l’affrancamento da quell’ordine mostruosamente civile che ha creato il nuovo genocidio italiano».
E ancora perché il furore, che Platone associava alla volontà di conoscenza del divino, è per gli autori volontà di contatto con la vita “in comune” che, volenti o nolenti, ci riguarda tutte/i.
In questo libro, dunque, non si fa affatto l’elogio della famosa “fuga dei cervelli”, né ci si limita a prenderla come un dato inarrestabile, o come una fatalità, a fronte dell’emergenza occupazionale dei lavoratori della conoscenza che da due decenni investe l’Italia (il reddito medio sfiora la soglia della povertà: il 44,6 % di essi non supera i 15mila euro annui e il 23 % è sotto i 10mila) e che ha accompagnato la «liquidazione dell’università italiana e le lamentazioni funebri sull’eccellenza dei ricercatori, costretti ad esportare il loro “capitale umano” all’estero».
«Nella desolante, e fondamentalmente ipocrita, formula della “fuga dei cervelli”», scrivono gli autori, «si riflette la disillusione e la rassegnazione delle classi dirigenti che hanno facilitato, diluito e infine naturalizzato il genocidio delle nuove generazioni».
Con piglio critico, supportato da un’apprezzabile ricognizione storica, da un linguaggio che cede spesso alle passioni calde e anche da una certa (talvolta discutibile) retorica neorepubblicana, il libro offre pertanto una genealogia del Quinto Stato, rintracciando nel passato parole in grado di illuminare il presente.
Un ruolo centrale lo assume la disamina, quasi epistemologica, della trama binaria dipendenza/autonomia, e della sua responsabilità nell’aver informato – a partire dal Codice Napoleonico in poi – una faziosa sovrapposizione tra lavoro “autonomo” (tipicamente, quello di colui che produce cultura) e “precario”, tra istanze della “vita” e istanze del “diritto”.
Incongruenze sulle quali sembrano essersi adagiate, peraltro, le varie riforme universitarie (da destra a sinistra) susseguitesi a partire dal 1989 all’ultima riforma Gelmini, che hanno sancito la rottura definitiva del patto politico tra Stato moderno e necessità di cultura e hanno ridotto così gli studenti a vivere sulla propria pelle la progressiva dequalificazione dei saperi, costringendoli «ad una laurea inutile per svolgere dei lavori e non un’attività lavorativa». Questa situazione di stallo, avvertono gli autori – e peraltro gli scontri romani del 14 dicembre 2010 hanno già illustrato il processo a meraviglia – può sfociare solo in un conflitto sociale inedito, che prende le mosse dal cosiddetto patto intergenerazionale (mancato) e che può esplodere in aperto conflitto politico: sarà il “nuovo Big Bang”.
È il 2035 l’anno in cui, stando alle previsioni, il welfare italiano verrà totalmente smantellato e, con esso, l’intera tradizione dello Stato costituzionale fondato sui diritti, anche sociali.
In attesa dell’apocalisse, forse varrebbe la pena che classi dirigenti e intellettuali prendessero un po’ più sul serio le, peraltro assai ragionevoli, istanze del Quinto Stato, spesso liquidate violentemente: riforma della gestione dei meccanismi di previdenza; maggiore senso di responsabilità; un’idea della cittadinanza fondata sulla possibilità, per gli individui, di intervenire sui meccanismi sociali che determinano il loro status. Perché farlo significherebbe mettere in luce l’obsolescenza, ormai, del nostro contratto sociale, l’unico in grado di porre i freni alle tanto vituperate “pulsioni di morte” con le leggi e di garantirne il rispetto da parte di tutti. Perché farlo significherebbe rendere onore al posizionamento del vinto. Ammesso che ciò sia compatibile con gli interessi dei mercati.
16 Novembre 2011 alle 11:06
Caro Zappino,
ti ringrazio per il contributo che hai offerto e ne condivido parte dell’analisi.
Naturalmente credo che le tue riflessioni partano dal libro, che però pare tu condivida.Prima di tutto, le riforme universitarie non sono tutte uguali, soprattutto quella sull’autonomia sarebbe stata molto efficace se non ci fosse stata un’università di questo tipo. Bisogna sempre tenere a mente che le norme sono condizionate dal contesto nel quale si inseriscono, e sono buone norme quando trovano effettiva attuazione nella realtà che devono regolare. una piccola considerazione proprio sotto questo profilo: le categorie autonomia e subordinazione esistono dalla locatio operis e locatio operarum del diritto romano, e nei primi anni del novecento questo dualismo ha assunto rilievo fondamentale nella definizione delle prime norme di diritto del lavoro. Mi convinco sempre più che il problema non è di status ma di continuità del reddito e di minimo retributivo. Nel resto del mondo questi due parametri sono sempre garantiti, anche quando si è esposti a continui cambi di posto di lavoro. Non comprendo il contratto unico per tutti (quello proposto in questi giorni) ma una norma efficace sarebbe il livello minimo retributivo fissato per legge e ammortizzatori sociali o prestazioni previdenziali che mantengano la continuità del reddito. Ci sarebbe molto da dire anche sulla questione maternità, ma non sono sufficienti i caratteri. Grazie ancora per averci proposto una lettura interessante.