Chavez
8 Marzo 2013Maurizio Matteuzzi
Forse non si saprà mai se a uccidere il presidente Hugo Chavez, morto ieri pomeriggio a Caracas, sia stato “solo” un maledetto e inestirpabile cancro o se il cancro sia stato in qualche modo inoculato nel suo organismo da qualcuno – qualcuno che il vicepresidente Nicolas Maduro ha immediatamente indicato e identificato nel “nemico storico” del leader bolivariano -, come con qualche probabilità accadde nell’inspiegabile e mortale avvelenamento di cui morì il leader palestinese Yasser Arafat, prigioniero degli israeliani.
In un caso o nell’altro Chavez non c’è più. E’ scomparso a soli 58 anni, dopo 15 anni di potere che hanno non solo cambiato ma sconvolto (in senso positivo) il Venezuela. E non soltanto il Venezuela ma l’America latina (basta pensare al ruolo preponderante che Chavez ha avuto nel processo di integrazione della regione).
Quando l’ex-colonnello dei parà fu eletto per la prima volta presidente, nel dicembre ’98, l’America latina era ancora sutto il tallone letale del neo-liberismo. Il brasiliano Lula, tanto per dire, arrivò alla presidenza solo nel 2003 e l’ondata di vittorie e presidenti di sinistra o progressisti che in questi tre lustri hanno cambiato il volto dell’America latina, mutandolo da triste laboratorio sperimentale neo-liberista a vero continente della speranza, la si deve non solo ma anche a lui, Hugo Chavez Frias, visto allora dalla sinistra latino-americana ed europea (basta pensare all’ ex-Pci italiano o al Psoe spagnolo) come un personaggio ambiguo o al massimo folclorico.
Era un leader fiammeggiante e carismatico. Quindi, come sovente accade ai leader fiammeggianti e carismatici, solo, senza eredi capaci di catturare la mente e il cuore delle folle. Non sarà facile per il delfino da lui designato, l’ex-ministro degli esteri e attuale vicepresidente Maduro, mostrare di saperne continuare il cammino. E non è per nulla sicuro che le varie anime del chavismo sappiano gestirne l’eredità politica, siano capaci di rispettare la ripartizione delle responsabilità e dei poteri. Reggeranno i delicati equilibri raggiunti nelle ultime settimane dell’agonia del leader, mentre era ricoverato nella clinica dell’Avana, in tutta evidenza discussi e sollecitati (anche) dalle autorità cubane, Raul e lo stesso Fidel, interessatissimi per ovvie ragioni ideali e pratiche (il difficile processo di riforma del modellop socialista avviato all’Avana) alle sorti del Venezuela bolivariano?
Reggerà l’accordo fra quelli che ora come ora appaiono gli eredi più accreditati – Maduro, il presidente dell’Assemblea nazionale Diosdado Caballo, il ministro degli esteri Elias Jaua ? Nel complicato periodo post-chavista che si è aperto emergeranno altri candidati? Che ruolo avranno i militari che l’ex-militare Chavez ha sempre “curato” di persona e da vicino per dar loro un attivo ruolo “sociale” nella rivoluzione bolivariana (e che, insieme al popolo dei ranchitos, gli slums abbarbicati sui contrafforti andini di Caracas, lo salvarono nel tentativo di golpe del 2002)? Quale sarà la dinamica dei rapporti con l’opposizione interna (quella esterna, ha “celebrato” ieri a Miami con balli e rum la notizia della morte di Chavez e “il ritorno della libertà”) eternamente sconfitta a ogni elezione in questi 15 anni e sempre oscillante fra la risposta golpista e quella democratica?
E quali i rapporti fra il Venezuela chavista ma senza più Chavez con “il nemico storico”, quegli Stati uniti che la partenza di Bush e l’arrivo di Obama non ha reso meno ostili a un leader e a un processo che pur con tutti i suoi limiti ha incrinato pesantemente la loro tradizionale leadership sul “Venezuela saudita” ante-Chavez e sul resto dell’America latina ma anche, bisogna dirlo, su scala globale grazie al multilateralismo chavista (con la Cina, con la Russia, con l’Iran, con “il sud del mondo”)?
Le incognite del dopo-Chavez sono molte, e anche i pericoli, gli scenari inquietanti.
Il limite di Chavez è stato semmasi – più che la indefinitezza e le ambiguità del suo “socialismo del ventunesimo secolo” (che però ha almeno riportato il termine socialismo nella storia da cui sembrava essere stato espulso), un concetto working in progress tutto da “riempire” nella teoria e nella pratica; o la indefinitezza e le ambiguità della sua “democrazia partecipativa” al posto della tradizionale democrazia rappresentativa (che però ha anticipato un dilemma quanto mai reale come si può vedere anche dai risultati delle recenti elezioni in Italia – non aver saputo o potuto costruire intorno a sé – fatte salve possibili sorprese che ci attendono – una leadership “bolivariana” capace di prenderne il testimone. O forse la malattia non gliene ha dato il tempo.
Il tempo è adesso. In queste ore a Caracas il popolo bolivariano è in lagrime e rende omaggio al “suo” leader ma poi bisognerà decidere il da farsi. Elezioni al più presto, probabilmente. Che probabilmente Maduro vincerà sotto l’onda ancora gonfia del chavismo. Ma dopo i nuovi leader dovranno cominciare a camminare da soli.
Quando nel ’98 “l’uragano Hugo” irruppe sulla scena politica democratica (dopo il fallito tentativo golpista del 1992), in molti risero delle sue velleità di presentarsi come l’erede naturale di Fidel Castro. Alla sua morte, 15 anni dopo, quell’ambizione non appariva più così velleitaria, pur fatte tutte le debite proporzioni. Per uno dei tanti paradossi della Storia, l’erede è morto prima del suo modello. Lasciando in lutto il “suo” popolo, non solo in Venezuela e facendo tirare un sospiro di perverso sollievo ai suoi tanti nemici e detrattori (particolarmente penosa la posizione della “sinistra” e dei media italiani) per la scomparsa di un “caudillo autoritario” e “populista”. Colpevole di aver “sperperato” miliardi per le “missioni sociali” in favore degli strati più poveri (e maggioritari) del popolo del Venezuela e di aver usato l’arma del petrolio a fini (anche) politici e di integrazione dell’America latina. Come se “gli altri” l’arma del petrolio non l’avessero usata da sempre. E non solo quella.