Che fa la società civile?
16 Gennaio 2013Alfonso Stiglitz
La recente nomina del fisico Zichichi ad assessore ai Beni Culturali della Regione Sicilia, la nomina di un ex ministro, parlamentare uscente, alla guida del Maxxi di Roma e, ancora prima, l’arresto di un collaboratore del ministro colto a saccheggiare l’illustre biblioteca alla quale era stato imposto come direttore, ci permette di riflettere amaramente sulla considerazione che si ha della materia.
Eppure la Costituzione della Repubblica aveva fatto ben sperare, nel lontano 1947 con il bel testo, e chiaro, dell’art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. L’elemento qualificante dell’articolo è sicuramente il termine “Repubblica” – frutto della battaglia svolta da Emilio Lussu nell’ambito dell’Assemblea Costituente – che sta a indicare la pluralità dei soggetti che hanno il dovere costituzionale di applicare quei principi: lo Stato, il sistema delle Regioni, delle Province, dei Comuni e l’insieme dei Cittadini, organizzati o meno. Se i Beni Culturali sono un ‘bene comune’ essi appartengono alla comunità, non a un singolo ente e, quindi, tutti sono partecipi della tutela e della promozione.
Ma è un articolo ampiamente disatteso con il taglio costante dei fondi e con il forte accentramento statalista; cui fa da contraltare la scarsa partecipazione degli altri soggetti e, va detto, la disattenzione di ampi settori della società civile. All’accentramento fa da supporto, paradossale ma non tanto, il progressivo e inesorabile smantellamento delle strutture statali di tutela in atto da vari anni in modo trasversale e unitario tra i vari governi di centro-sinistra e di centro-destra. Il segnale più esplicito si è avuto con il governo tecnico del Presidente della Repubblica, presieduto dal senatore Mario Monti e nel quale l’unico ministro non tecnico è appunto quello del MIBAC e con la spending review che ha abolito i comitati di settore, organi tecnici del Ministero. In pratica sta andando al compimento la trasformazione interna al Ministero, in atto da anni, con il passaggio delle competenze dai settori tecnici dello stesso, pian piano indeboliti o addirittura soppressi, a quelli amministrativi. Processo rafforzato dall’accorpamento in atto delle soprintendenze, organi periferici e operativi del Ministero.
Il risultato è la diminuita presenza nel territorio, aggravata dal mancato turn over del personale e dalla cronica mancanza di mezzi e fondi per le attività concrete di tutela. Ciò porta, da una parte, a scaricare i costi della tutela di competenza statale sulle comunità locali e, dall’altra, a ridurre le capacità operative
In questo modo, paradossalmente, i Piani Urbanistici Comunali (PUC) unitamente al Piano Paesaggistico Regionale, stanno assumendo il ruolo di unica forma di tutela diffusa del Beni Culturali ormai esistente. Il processo ha due facce come il vecchio dio Giano. L’aspetto positivo è che i PUC sono lo strumento più vicino alle comunità che li approva i Consigli Comunali, loro massimo organo di rappresentanza; ciò comporta, o dovrebbe comportare, la condivisione della tutela e l’assunzione dei Beni culturali come parte integrante e inscindibile dell’identità di quella comunità. L’aspetto negativo e preoccupante è che i PUC sono frutto di amministrazioni comunali non sempre espressione di una volontà volta alla tutela e alla conservazione dei Beni culturali; il ruolo che il Comune di Cagliari ha svolto negli ultimi decenni nei confronti di Tuvixeddu – Tuvumannu, la più importante area archeologica della Sardegna, ne è un chiaro esempio.
Lo Stato spende poco o niente per la ricerca archeologica e per la conservazione; altrettanto scarso è l’impegno della Regione Sarda. Le ricerche archeologiche, per legge prerogativa dello Stato, si fanno a spese delle comunità locali (così come buona parte delle ricerche sul campo fatte dall’Università). In altre parole il dettato costituzionale si è tradotto in un percorso poco virtuoso nel quale lo Stato (Ministero e Università) decide e realizza mentre le comunità pagano senza aver, praticamente, alcuna voce in capitolo nelle scelte e nei risultati; ciò pone il problema dell’uso sociale delle ricerche, oggi, spesso, proprietà “privata” dello Stato (Ministero e Università) e delle loro ricadute nella pianificazione.
Infine, in questi anni è diventato prevalente, negli interventi che gli enti pubblici svolgono nel campo dei Beni Culturali, il principio della valorizzazione, figlio della politica culturale degli anni precedenti nei quali il termine chiave era quello di “giacimenti”, in un’ottica economicistica.
La realtà dei fatti è diversa. Se è vero che corretto dire che il patrimonio, che appartiene a tutti, deve essere reso fruibile il binomio tutela – fruizione è ormai declinato esclusivamente nei termini di valorizzazione: un bene culturale diventa tale solo se lo valorizzo. In altre parole il bene non ha un valore in sé ma è tale solo se apporto delle opere che lo “migliorino”, spesso sovrastandolo. Con un effetto ormai perverso, acuito dai finanziamenti europei: da “conservo per fruire” a “valorizzo per conservare” e, infine, “tutelo e conservo solo ciò che può essere fruito”, il resto è abbandonato a se stesso. In realtà non tutto può essere fruito, ci sono dei beni che difficilmente possono esserlo, per fragilità propria o per localizzazioni difficilmente raggiungibili se non a spese di trasformazioni dei luoghi tali da snaturarne la natura, ma che, non per questo, possono essere esclusi dalla tutela o da qualsiasi intervento di conservazione. La situazione è aggravata dagli aspetti di sovrapposizione di competenze tra tutela e valorizzazione; se chi tutela si occupa di valorizzare, resta da chiedersi chi decide se la valorizzazione è funzionale alla tutela o viceversa? In questo senso il caso di Tuvixeddu è eclatante, la mancata separazione netta tra tutela e valorizzazione, ha portato al rapporto di mutuo consolidamento tra piccolo parco archeologico e le cubature. Un parco archeologico progettato senza tenere conto delle esigenze di tutela e sostenuto da un vincolo palesemente inadeguato, come hanno dimostrato le vicende degli ultimi palazzi realizzati in viale Sant’Avendrace che hanno cancellato un tratto, archeologicamente ancora vergine, della necropoli. Un’area archeologica trasformata in un giardino, senza riguardo per la natura della necropoli, per le sue esigenze di conservazione e neanche per quelle della fruizione.
Non resta da chiedersi “che fa la società civile”?