Chi ha paura delle Case e degli Ospedali di comunità?

16 Febbraio 2022

[Mario Fiumene]

Il ministero competente definisce così la casa della salute: “la sede pubblica dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie, ivi compresi gli ambulatori di Medicina Generale e Specialistica“.

Credo che tutti concordiamo sulla certezza che le Case di comunità sono nell’ambito delle cure primarie. Andando a rileggere la Dichiarazione di Alma Ata (1978) il primo livello di contatto degli individui, delle famiglie e della comunità con il sistema sanitario del paese, sono le cure primarie. Attraverso le cure primarie si porta l’assistenza sanitaria quanto più vicino è possibile a dove la popolazione vive e lavora (dicasi prossimità) e costituendo il primo elemento di un processo continuo di assistenza. È questo il livello dove emergono e si manifestano i bisogni di salute della popolazione (applicazione del welfare della comunità).

Su un piano più operativo, si tratta di dare gambe a questo sistema di sanità: tradurli in modelli efficaci di intervento. La attuale situazione di pandemia mi porta a dire che per proteggere adeguatamente una comunità, non è sufficiente garantire un livello di di copertura vaccinale mediamente elevato, ma occorre che tale copertura sia uniforme nella popolazione, onde evitare che vi siano dei gruppi di persone (che potrebbero contrarre infezioni, non essendo immuni) al cui interno la circolazione in forma epidemica è ancora impossibile. Proprio la pandemia ci pone davanti a una situazione complessa. Una complessità che ci è esplosa sotto gli occhi. Repentina. Tutti erano al corrente della stretta relazione fra stato di salute e condizione socioeconomica: ecco, quella correlazione si è manifestata in tutta la sua asprezza.

Ritornando al binomio comunità e prossimità, credo che siano le cure primarie a dover fare la differenza. L’assistenza di primo livello dovrebbe essere patrimonio di tutta la popolazione e questi servizi di base potrebbero dipendere dai comuni perché la salute è un diritto ma anche un dovere non solo dell’individuo ma della comunità. Perché se esiste un “interesse della collettività” allora implicitamente esiste una comunità cioè un vero e proprio soggetto politico e la salute si tutela certo ma soprattutto si costruisce attraverso i doveri, nella comunità fatta da cittadini e da operatori, nel rispetto non solo “della dignità e della libertà della persona umana” ma anche nel rispetto dei diritti e dei doveri di cittadinanza della comunità, perché il SSN è strumento della comunità non per la comunità”.

I servizi di prossimità dovrebbero essere forniti principalmente (non esclusivamente) da medici e infermieri di famiglia (la definizione “di famiglia” vale appunto sia per i medici per gli infermieri). E’ necessario ridefinire l’idea attuale di ospedale, cioè superare l’attuale sistema duale, territorio/ospedale attraverso l’integrazione tra cure primarie e cure ospedaliere. Anche la formazione universitaria va ridefinita, oggi è troppo focalizzata sullo studio delle singole malattie e poco interessata a occuparsi dei problemi delle persone, rappresenta un serio ostacolo all’innovazione delle cure primarie.

Per affrontare le nuove sfide assistenziali prodotte dai processi di transizione post-pandemia è necessaria una profonda trasformazione dei sistemi assistenziali, che coinvolga attivamente la comunità.   

L’Italia è articolata in poco più di 7900 Comuni dei quali 5532 hanno meno di 5000 abitanti spesso lontani da grandi centri urbani e con una viabilità “complicata” (vedasi la Sardegna). Alla luce di questa realtà, se siamo d’accordo che bisogna rifondare completamente la Medicina Territoriale, non possiamo pensare di farlo attraverso la istituzione di grandi strutture ad ambulatoriali e residenziali. Se parliamo di Case di Comunità e di Ospedali di Comunità, dobbiamo pensare anche e soprattutto ai piccoli Comuni italiani, in particolare a quelli delle zone Alpine, della zona Appenninica estesa dalla Romagna al Sud della Penisola. Ancora di più dobbiamo pensare ai piccoli Comuni della Sicilia e della Sardegna e tutte le isole minori (cito ad esempio La Maddalena, Carloforte e Sant’Antioco).

Esiste una serie di documenti di policy sanitaria precedenti al PNRR che definiscono questi modelli di “strutture intermedie” tra ospedali e reti di cure primarie anticipando quanto poi ribadito e sistematizzato in parte nel PNRR stesso. Il documento più organico precedente al PNRR è senza dubbio quello relativo a “La riorganizzazione delle Reti dei Servizi Territoriali (Re.Se.T.) e l’integrazione dell’assistenza ospedaliera con l’attività territorialeLinee di indirizzo per il potenziamento e l’armonizzazione dei modelli di assistenza primaria in Italia, con particolare riferimento al tema della cronicità”,17.01.2018.

In questo documento, frutto di un Tavolo Inter Istituzionale, veniva previsto il superamento della dicotomia“ospedale-territorio” e della frammentazione dei servizi territoriali, più che dalle dichiarazioni di intenti programmatici … “dalle prassi effettivamente realizzate, dai PDTA, dall’assistenza intermedia già in pieno sviluppo nel Paese, superando la logica del “a chi competono” le cure ed affermando la logica del “chi è in grado di dare la risposta in modo più appropriato, efficace, efficiente e nel luogo e nei tempi più adeguati”.
Quindi veniva affermata una logica di integrazione, di sussidiarietà, di reti integrate sanitarie, sociosanitarie e sociali, che ritroviamo anche esplicitata nel PNRR, Modulo 6“Salute”.

In questi documenti di policy sanitaria le “strutture intermedie” possono essere così definite: “strutture polivalenti e funzionali che ospitano, in uno stesso spazio fisico, funzioni dell’assistenza primaria, garantendo la continuità assistenziale, anche specialistica, e le attività di prevenzione attraverso il lavoro in team multi professionali e multidisciplinari del personale dedicato. In particolare, esse sono la sede della presa in carico di pazienti affetti da patologie croniche in una logica di medicina di iniziativa, in collegamento con altre articolazioni territoriali per garantire il più alto grado di qualità dei percorsi di cura e di integrazione sociosanitaria, oltre al necessario collegamento con l’ospedale.”

I cittadini chiedono nuovi modelli assistenziali: una rete  che integri ospedale, territorio, domicilio.
L’obiettivo  è “la creazione di una piattaforma intermedia di cure tra ospedale (vari livelli) e territorio (Distretto) dove tutti gli operatori collaborano alla presa in carico comune dei pazienti”, che “può concretizzarsi, secondo alcuni modelli, in strutture territoriali (Case di Comunità, Presidi territoriali di assistenza e Ospedali di Comunità che  sono da intendere come presidi di prossimità,) nelle quali, da una parte, dare attuazione a quanto previsto sulla medicina di iniziativa con la creazione e operatività di team multi-professionali in costante contatto con i colleghi che operano all’interno degli Ospedali di I° e II° livello, dall’altra, rispondere ai bisogni sanitari e sociali dei pazienti più anziani e disabili”.

Certamente siamo d’accordo su alcune priorità, come la modernizzazione anche strutturale degli ospedali italiani, la cui vita media per moltissime strutture ha ben superato ogni limite plausibile, rendendoli spesso inadeguati anche solo ad ospitare le nuove tecnologie; Occorre ripensare l’attuale gestione monocratica delle aziende ospedaliere adottando una gestione partecipata cioè aperta alle ragioni della domanda ed a quelle della professione. L’ospedale moderno per definizione è una realtà ad alta complessità e l’alta complessità non si governa in modo monocratico ma in modo partecipato, diffuso e decentrato e bisogna entrare nella logica più moderna di considerare le professioni e le discipline mediche come parte fondamentale della governance del sistema.

Esiste la necessità di un investimento sulle discipline mediche e sul mondo delle professioni. Gli specialisti ospedalieri debbono gradualmente crescere di numero con l’obiettivo di raggiungere gli standard attualmente vigenti negli altri paesi europei. I tempi sono maturi per l’introduzione negli ospedali di nuove figure professionali quali per esempio i case manager, i data manager e gli infermieri di ricerca attualmente non previste nel SSN nonché l’aggiornamento negli ospedali delle infrastrutture dell’informazione e comunicazione, attualmente vecchie e di qualità molto scadente. Gli screening oncologici devono ripartire immediatamente ed a pieno regime in tutte le Regioni. Bisogna con urgenza verificare in ogni singola Regione l’entità degli scostamenti registrati rispetto all’epoca pre-Covid e il livello dei recuperi eventualmente realizzati;

Importante inoltre l’attivazione e la diffusione su tutto il territorio nazionale di programmi avanzati e strutturati di telemedicina con previsione dei costi di sviluppo e gestione ed emanazione di norme specifiche che li regolino, anche a tutela dei medici coinvolti in queste attività. Programmi da sviluppare sia in ambito ospedaliero che a livello della medicina del territorio naturalmente senza prescindere dalla periodica osservazione in presenza dei pazienti da parte dei medici di medicina generale e degli specialisti.

L’Ospedale di comunità deve divenire una struttura intermedia del “sistema salute” per fornire un servizio personalizzato, accrescere la produttività degli ospedali più importanti e degli altri fornitori di servizi. L’importante è che si ridefinisca “chi fa cosa”, si riduca la non qualità. Non serve “fare bene cose inutili”. Gli operatori e le operatrici della sanità e tutti i decisori pubblici si devono confrontare e devono essere capaci di impegnarsi a realizzare davvero il meglio possibile dell’offerta salute, questo si augurano i cittadini e le cittadine.

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