Cingolani: quando la transizione ecologica non fa rima con ambiente
22 Maggio 2021[Antonio Muscas]
Se il cambiamento climatico è una reale emergenza, come tale deve essere affrontato. A vedere quanto accade, invece, si potrebbe leggere come l’ennesima occasione per fare affari e nel frattempo smantellare ogni forma di resistenza contro la speculazione e l’assalto al territorio.
Infatti, secondo il ministro della transizione ecologica, Cingolani, nella sua lunga intervista al quotidiano Il Foglio “la difesa dell’ambiente è stata trasformata in qualcosa da mettere in contrapposizione con il progresso, con la crescita, con il benessere” e perciò bisogna “superare la stagione in cui difendere l’ambiente coincideva con il dire no a tutto”.
Secondo il ministro bisogna addirittura “trovare un modo affinché chi fa perdere tempo al paese, facendo perdere anche risorse, debba rispondere pubblicamente (e mi auguro anche di fronte alla legge) dei ritardi che ha contribuito ad accumulare”, dopodiché, “occorre che qualcuno allenti le catene che tengono a freno il nostro paese”, ovvero “trovare un modo, per esempio, per velocizzare le procedure di impatto ambientale e per rendere più rapide le autorizzazioni paesaggistiche […] magari inserendo all’interno di un’unica commissione i processi autorizzativi, la valutazione di impatto ambientale, le autorizzazioni paesaggistiche.”
Secondo il ministro, in una esposizione tanto banale quanto terrificante, ambiente e paesaggio non sono beni da vivere ma da sfruttare ai fini della crescita economica. Con l’unico inghippo, bisognerebbe spiegargli, che ambiente e paesaggio si possono compromettere una volta sola, dopodiché non ce ne restano altri.
La transizione energetica è tutta pensata a suon di crescita, produzione di energia e consumo di suolo, in una corsa all’impazzata verso il baratro. Nel menù, con numeri da capogiro, non manca davvero nulla: eolico, fotovoltaico, geotermico, metano (blu, verde, grigio e viola), idrogeno (anche qui i colori non mancano: grigio, blu e verde), incenerimento dei rifiuti, stoccaggio della CO2 e ancora una volta… nucleare.
Con lo spauracchio del cambiamento climatico e in nome dell’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica si vuole giustificare ogni sorta di nefandezza. Ma noi non dobbiamo e non possiamo limitarci a intervenire esclusivamente sulla riduzione delle emissioni di anidride carbonica: la sopravvivenza nostra e del pianeta è messa a repentaglio da numerose forme di emissioni e di inquinamento, dalla spoliazione delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili, dalla distruzione degli habitat, dal consumo e degrado dei suoli, dall’alterazione dell’ambiente naturale, del paesaggio e dell’ambiente urbano. Il decoro e la bellezza sono diventati un freno allo sviluppo, alla crescita del PIL. Ma che senso ha la nostra esistenza in un ambiente degradato sotto ogni punto di vista? Cosa ci rimane una volta distrutto il paesaggio? Si potrebbe così considerare ancora vita la nostra? O dovremmo a quel punto trasferire la nostra esistenza in un mondo virtuale alimentato a energia rinnovabile?
Oltreché essere estremamente lontani dagli obiettivi di decarbonizzazione, per raggiungerli stiamo accettando di compromettere l’esistenza nostra e della vita sulla Terra. E, ciò che è peggio, diverse organizzazioni e associazioni ambientaliste, in nome della transizione stanno appoggiando e promuovendo le peggiori politiche speculative e di devastazione. Si è perso di vista il quadro generale e ognuno tende a difendere le sue proposte, concentrandosi su quelle e dimenticandosi del resto. E così, ci sono i promotori dell’idrogeno verde, dell’eolico a mare, oppure del metano o del fotovoltaico industriale; ognuno con la sua ricetta in nome dell’ambiente e della transizione e tutti intenti a dirottare un po’ dei finanziamenti europei sul settore, accomunati dalla fretta di agire e dalla necessità di semplificare, “rendere più fluidi i colli di bottiglia che da anni tengono in ostaggio l’Italia”, derogare, o, per essere più concreti, “allentare alcune catene”, per velocizzare le procedure di impatto ambientale e per rendere più rapide le autorizzazioni paesaggistiche.
Il problema per costoro è rappresentato da quelli del no a tutto, dai Nimby, not in my backyard, considerati “un problema, un danno, un guaio da risolvere e da estirpare”. Ci sarebbe da sorridere se non fossimo di fronte ad accuse serie e a un problema pesante. Ma quale Nimby? viene da rispondere. Il ministro Cingolani e quelli come lui conoscono il paese dove vivono? Possono dire quale parte del territorio non è stato interessato da fenomeni di sfruttamento, inquinamento, devastazione e trasformazione del paesaggio? A cosa dovremmo rinunciare ancora? E dove dovremmo continuare ad andare, in quali altri Paesi, a prelevare risorse e devastare ambiente e paesaggio per garantirci il nostro alto standard qualitativo della vita?
Per rimanere in Sardegna, la terra dove vivo, convertire in rinnovabile anche solo il 50% dei 40.000 GWh di energia consumata annualmente significherebbe installare almeno 13 GW di impianti tra eolico e rinnovabile (con tutte le implicazioni in termini di consumo di materiali quali: acciaio, rame, cemento, alluminio, terre rare, ecc.), ovvero, oltre cinque volte più di quanti ce ne sono installati attualmente e per i quali sarebbero necessari non meno di 50.000 ettari di suolo a cui si dovrebbero aggiungere i sistemi di accumulo e considerare il fatto che gli impianti hanno una vita media di 20-25 anni e perciò questa è la frequenza con la quale si dovrebbero sostituire. Impianti di produzione tutti naturalmente privati, privati perciò i benefici, mentre, per contro, pubblici i costi, per realizzare i sistemi di accumulo e per l’inevitabile complicata gestione del sistema. Si ha idea di cosa significherebbe in termini ambientali, paesaggistici, economici e sociali?
Parallelamente alla ricerca frenetica e sempre più intensa di materie prime per la realizzazione dei nostri impianti “rinnovabili” non si ferma lo sfruttamento dei giacimenti di combustibili fossili e la ricerca di nuovi giacimenti. Si intrattengono stretti legami politici e commerciali con vecchie e nuove dittature, si finanziano a un ritmo crescente esercito, armi, tecnologia ed esercitazioni militari e guerre (con tutte le implicazioni anche in questo caso di inquinamento e devastazione ambientale, per non parlare dei disastri umanitari), si potenziano e realizzano nuove vie commerciali e nuove infrastrutture per il trasporto di beni, materie, combustibili e energia, dando evidenza che non vi è nessuna intenzione di modificare il corso degli eventi ma semplicemente di promuovere altri canali commerciali e di speculazione, come è appunto ora per la transizione energetica.
Se il cambiamento climatico è una reale emergenza, come tale deve essere affrontato, al pari di come si è fatto con la pandemia quando si è imposto l’uso della mascherina o il vincolo agli spostamenti. Altrimenti è solo una presa in giro di dimensioni colossali. La soluzione più rapida e più efficace per limitare le emissioni e l’inquinamento è la riduzione dei consumi, non certo l’opposto come si intende invece fare. E ridurre i consumi non significa, come si vuol far credere, pensare ad una società senza tecnologia o ad un ritorno alle caverne. Significa, per esempio, mettere dei limiti al peso e al consumo delle autovetture (altro che SUV e supercar elettriche! Non scherziamo), mettere dei limiti ai trasporti privati in aereo o elicottero a solo scopo di svago, mettere dei limiti agli yacht; significa, per esempio, proibire l’utilizzo del riscaldamento esterno utile alle persone per bersi lo spritz in piazza a 20 gradi sottozero.
Significa assegnare a ciascun individuo un pacchetto non cedibile di energia o di emissioni. Significa investire nella rilocalizzazione delle attività produttive con i molteplici vantaggi di creare posti di lavoro, ridurre i consumi e l’inquinamento legati ai trasporti, ridurre gli sprechi attraverso produzioni più puntuali e riprendere il controllo di settori dimostratisi strategici in epoca pandemica. Significa riportare al controllo pubblico l’utilizzo delle risorse e la produzione energetica per toglierla dalle mani dei privati e degli speculatori il cui unico interesse è il profitto, eliminare o ridurre la sudditanza energetica esterna. Significa, soprattutto, intervenire sull’esercito, sulla difesa e sulle armi, trasformando radicalmente le nostre politiche interna ed estera e, per noi sardi, alleviare finalmente la Sardegna dal peso degli oltre 35.000 ettari occupati dalle basi militari che da troppo tempo gravano sulla vita, la salute e i destini nostri e delle vittime delle nostre guerre e degli eserciti che da noi trovano accoglienza.
Gli esempi sono tanti e su ciascuno varrebbe la pena spendere seriamente del tempo per riflettere. Se il cambiamento climatico è una reale emergenza, bisogna adottare soluzioni emergenziali, proprio come la pandemia, in cui le libertà del singolo, di consumare energia e risorse a proprio piacimento, in questo caso, sono subordinate all’interesse generale. Bisogna mettere a punto un piano articolato con obiettivi e scadenze chiari a cui destinare dei fondi, tanti, coinvolgendo realmente le comunità con progetti partecipati e in cui si tengano in conto le esigenze dei territori.
E perciò piuttosto che continuare a parlare esclusivamente di quale tipo di produzione (eolico, fotovoltaico, gas, ecc.), dovremmo iniziare a ragionare di cosa, come e quanto tagliare, con la certezza che non solo la maggior parte di noi non dovrà rinunciare ad alcunché ma addirittura ne trarrà beneficio in termini economici e di qualità della vita.