Contorni: Antropologia e archeologia (2)

16 Luglio 2016
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Giulio Angioni

Socraticamente, sull’antropologia ho soprattutto dubbi e problemi, maturati in decenni di specialismo. Di archeologia invece so troppo poco. E quindi, del poco che so sono piuttosto convinto, non mi posso permettere i dubbi che nascono dalla riflessione e dall’esperienza, figli anche degli errori fatti. Sull’archeologia e gli archeologi so di avere soprattutto pregiudizi sbrigativi o nozioni imprecise quanto tenaci. Tentare di farne non un inventario, ma un qualche esempio, può essere utile, anche in forma estremizzata e caricaturale, se è vero, anche, che si tratta di pregiudizi di senso comune non solo accademico, per lo più condivisi dai non archeologi e da qualche archeologo scontento di sé e del suo mestiere.

Una mia impressione pregiudiziale è che gli archeologi, specie se italiani e quindi anche sardi, siano educati a diventare incapaci e diffidenti della dimensione teorica e metodologica che vada oltre abilità del tipo delle mere tecniche di scavo e di trattamento e catalogazione dei reperti. E che quindi per lo più lavorino non preoccupandosi del perché fanno ciò che solitamente fanno. Che insomma si perdano nelle minuzie del come e del quanto, felici se riescono ogni tanto a raggiungere un quando, una datazione, magari assoluta o per lo meno relativa. Un altro pregiudizio diffuso, e anche mio, è che gli archeologi siano mediamente incapaci di parlare del loro lavoro, di metodi e risultati, a chi non sia del mestiere e sappia usare un loro gergo astruso quanto impreciso, come mostrano tutte le archeo-didascalie museali del mondo. Si lascia così il vuoto tra gli specialismi e le curiosità e gli interessi spontanei, il vuoto tra l’accademismo chiuso e astruso e la socializzazione dei suoi risultati: vuoto colmato dalle fantasie fideistiche più incontrollate quanto dagli imbrogli di disonesti del tipo dei tombaroli, con fenomeni più tipici come quello sardo della leggenda nera degli archeologi come massimi trafugatori e falsificatori della storia sarda positiva. Mondo ambiguo e pericoloso da cui l’archeologo medio pare difendersi solo con metodi e mentalità da carabiniere e da burocrate, specie se lavora in luoghi come le soprintendenze, dove il mestiere più utile, se fatto bene, sembra essere quello del magazziniere di reperti e del cerbero del territorio.

Dalle mie poche e sbrigative letture di scritti di specialismo archeologico, per lo più sardo (nei due sensi, sia di studiosi sardi sia di argomento sardo) conservo impressioni di evoluzionismi impliciti o espliciti ma per lo più unilineari, diffusionismi aprioristici per lo più mediterraneo-centrici e da ex Oriente lux, che a un antropologo di queste parti fanno venire almeno un senso di colpa per non sapere condividere con altri specialismi le cose utili che il suo specialismo potrebbe mettere a disposizione, come accade invece in luoghi con scuole che hanno prodotto correnti più innovative e più potenti in archeologia, quali quelle anche da me evocabili con nomi come Gordon Childe, Leroi-Gourhan, Renfrew…

Altro che capita di richiamare alla mente pensando da antropologo all’archeologia, come risultato soprattutto di qualche lettura e di qualche visita a musei archeologici detti di solito nazionali, è che, almeno in Italia, l’archeologia sia ancora troppo dentro la dimensione dell’attenzione a manufatti che siano catalogabili e tanto spesso sistemati e mostrati come artistici. Cioè ancora dentro la dimensione dell’archeologia come storia dell’arte, alla Winckelmann o nel migliore dei casi alla Bianchi Bandinelli, nella dimensione delle veneri greche e dei bronzetti nuragici studiati ed esposti con preoccupazioni, spesso del tutto implicite, del tipo della distinzione tra arte e non arte, tra bello e brutto, materia e spirito, primitivo ed evoluto, luoghi d’origine e tempi e tramiti di diffusione, e così via.

E ho anche persino il sospetto che solo a tavola, dopo un buon pasto e qualche libagione, certi archeologi osino intavolare discorsi intorno al fatto che le loro ricerche e i loro studi abbiano per scopo non solo di scovare residui più o meno muti e di conservarli in ordine, ma soprattutto di perseguire e di avere notizie su complessi e complessivi modi di vivere che hanno lasciato memoria di sé in forma di residui sepolti nel suolo. Non so se questa sia addirittura un’utile definizione di archeologia in senso stretto, o del senso comune non specialistico, ma mi rendo conto che lo è per me, mentre cerco di ragionarci da antropologo, magari in vista di progetti comuni più sensati, non solo di ricerca e di riflessione specialistica e interdisciplinare, ma anche, perché no, di vita presente e futura per l’umanità, da pensare anche riflettendo al passato ricostruibile e per le norme e le usanze della ricerca specialistica.

Foto Francesca Corona

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