Contorni. Appunti su Arte e non arte (1)
1 Settembre 2015Giulio Angioni
Noi siamo abituati alle reazioni di sorpresa, imbarazzo, disappunto esplicito per certi tipi di attività che diciamo artistiche, quando a praticarle sono nostri prossimi normali colleghi e conoscenti.
Ho già detto e scritto di come anch’io suscito ironie, persino reprimende per le mie scritture letterarie, specie in versi. A volte, con antropologi, cerco di scusarmi, per esempio citando T. S. Eliot, che per me è il più antropologo dei poeti del Novecento, non solo perché ha scritto note e note in cerca di una definizione di cultura o perché la sua The waste Land lui stesso la vuole nata da letture di antropologia, ma soprattutto perché spesso ha difeso l’opinione che la poesia sia una sintesi di pensiero e di emozione, che sembra una buona definizione per quella che da noi si è detta antropologia postmoderna.
Per fortuna, siccome oggi c’è anche un’antropologia della letteratura di essere preso sul serio. Ma per lo più mi si dà l’impressione di fare, specie poetando, qualcosa di impudico. Ho cercato di spiegarmi questa cosa. Mi pare che la cosa funzioni così solo in Occidente, solo da qualche secolo, rispetto a tutto ciò che è arte, magari rispetto alla non arte, più o meno vagamente. Da noi fare arte è cosa riservata a pochi capaci di eccellenze inedite. Se non è più così, tanto meglio. Ma credo davvero di poter affermare che, per il nostro senso comune medio colto, fare cose di una qualche arte è troppo spesso una pretesa. Ed è difficile pretendere di essere speciali, persino geniali. Nella nostra cultura pare proprio che la faccia ancora da padrona l’opinione anche militante che solo l’eccellenza assoluta e irripetibile, solo la misteriosa genialità giustifichi l’esercizio di capacità estetiche attive. Spesso è visto ancora romanticamente come un tormento individuale solitario. Chi può pretendere oggi per sé una cosa del genere?
Anche alcune antropologiche da tempo hanno sottoposto a critica un’idea e una pratica delle arti, proprie del senso comune medio colto di oggi in Occidente. Da noi infatti si intende per arte, o più in generale per dimensione estetica, non una caratteristica umana universale, elementarmente umana e magari anche preumana, e quindi anche della nostra e altrui vita normale e quotidiana, ma la si intende e la si vive (nel bene e nel male) come un ambito a parte della vita, autonomo, separato, specialistico, trascendente e riferito a una sfera di agio o di bellezza estranea agli interessi e alle attività banali e utilitarie: un ambito che avrebbe bisogno di contemplazione disinteressata, specialmente rispetto ad attività di tipo pratico, e che soprattutto si deve guardare da contaminazioni della politica, della religione, dell’economia e così via, e magari anche riservata a certe culture mentre altre ne sarebbero prive o carenti.
La migliore antropologia culturale, quando ha riflettuto su arte ed estetica, ha riconosciuto il carattere storicamente determinato e relativo e lo ha riconosciuto tipico e piuttosto esclusivo delle nostre società occidentali moderne. Ne ha rimarcato anche certe stigmate di etnocentrismo e certi indebiti fondamenti essenzialistici, per cui ciò che è caratteristicamente occidentale moderno si proietta su tutte le altre forme di vita, anche in funzione valutativa autogratificante; mentre la globalizzazione diffonde per il mondo anche questo senso comune estetico occidentale, più o meno mal digerito, come per esempio il doppio pregiudizio che ci siano naturali e ontologici argomenti di per sé poetici o invece prosaici, e che le cose stiano così anche per la forma, che ha da essere poetica tanto quanto il contenuto, e cose di questo genere, tutte nostre e datate.
Anche senza saperlo abbastanza, gli antropologi hanno partecipato alla ricostruzione delle condizioni e delle trasformazioni che hanno portato in Europa alle nostre pratiche e concezioni di una dimensione estetica a parte, ‘libera’ e autonoma: gli antropologi ne hanno relativizzato la portata in quanto risultato particolare di una storia particolare, quella degli ultimi secoli in Occidente. E hanno però anche messo in evidenza che la dimensione estetica non è un prodotto esclusivo di certe forme di vita, come in particolare la nostra, ma che la dimensione estetica è da vedere come costitutiva e caratterizzante dell’intera nostra specie umana (e senza nemmeno negarla ad altre specie umane precedenti e ad altre forme di vita), tanto e forse anche di più delle dimensioni della tecnica e del linguaggio. Non ultimo André Leroi-Gourhan formulava l’ipotesi euristica che “nell’uomo tutto è assimilabile ai processi del pensiero esteticamente produttivo”, come scrive nel suo per me ancora fondamentale Il gesto e la parola.
Troppo mondo invece resta fuori da un “mondo dell’arte” ancora tipico del nostro senso comune colto, tanto che ne resta fuori anche la maggior parte degli occidentali di quei ceti o classi che un tempo si dicevano popolari e non avevano, per dirla come Bourdieu, l’habitus di classe di chi ama pensare, agire e comprare in termini di arte per l’arte e di distinzione tra arte e non arte.
Nell’immagine: Pioggia e riflessi” dipinto di Giuseppe Faraone