Contorni: La variabilità dei sensi
16 Giugno 2016Giulio Angioni
François Truffaut, nel film storicamente fondato L’enfant sauvage (1968), mostra un medico che osserva e studia un ragazzo, cresciuto fin da molto piccolo solo nei boschi, che non reagisce ai suoni e ai rumori della casa, e decide che è sordo chissà per quale malformazione fisica (anche perché il ragazzo non si tiene eretto sui due piedi nel camminare), mentre invece la sua governante nota che il ragazzo selvaggio sente benissimo rumori naturali come il vento o artificiali come schiacciare una noce.
È difficile accettare che le nostre percezioni sensoriali non siano innate o naturali ma siano invece un prodotto culturale variabile, che anche una cosa così ‘naturale’ come la deambulazione bipede eretta si apprenda in situazioni adatte e che si percepisca coi sensi ciò che la propria cultura seleziona e ci insegna a percepire e anche a giudicare esteticamente. Che si sia ciechi o vedenti, cioè normali o diversamente abili rispetto al vedere, ogni vedere è un vedere culturale, variabile e relativo, e ciò che per noi è naturale per altri può non esserlo perché altro è ritenuto naturale, come afferma spesso anche il nostro senso comune quando dice variamente che l’opinione è regina del mondo.
Ancora più difficile per il nostro senso comune è concepire e sentire che il proprio sé sta anche, e prima di tutto, fuori di sé, nella condivisione di un modo di vivere che è fuori di noi prima che dentro di noi, e che ci sarà ancora dopo di noi. Ciò ci accade nonostante certi altri dati del senso comune, quali l’abitudine cristiana a pensare il nostro essere individuale come parte di collettività come il creato, i figli di Dio, la comunità dei credenti, il corpo mistico di Cristo, che non si muove foglia che Dio non voglia e così via.
I modi, i canoni, i panorami della sensazione e della sensibilità sono molto variabili da cultura a cultura, anche all’interno di una medesima società stratificata in verticale. Gli antropologi parlano di soundscapes, di smellscapes, di foodscapes e di altri scapes oltre che di lanscapes per indicare interi e complessi sistemi sensoriali diversi, che sono anche valutativi del buono, del bello e del giusto, come sa chiunque rifletta, per esempio, su che cosa sia sporco o pulito, puro o impuro a seconda dei tempi, dei luoghi, delle culture e delle subculture.
Il senso per il quale abbiamo più esperienza di variazione culturale (ma anche individuale) è forse il gusto, del quale in molti possiamo aver constatato che se si sommassero e imponessero all’umanità tutte le proibizioni e i conseguenti ribrezzi alimentari del mondo, l’umanità morirebbe di fame in pochi giorni; e che se si sommassero tutte le cose usate al mondo come cibo, tutto sarebbe cibo, compresi gli escrementi, il corpo umano, il proprio stesso corpo. Tutto al mondo è stato proibito come cibo, tutto al mondo è stato usato come cibo. Per noi occidentali niente carne di cane o di insetti, niente carne bovina per gli indù, niente carne suina per i musulmani e così via. Tutto al mondo è buono da mangiare per qualcuno, tutto al mondo è disgustoso per qualche altro.
Perché il fatto capitale è che nemmeno per l’alimentazione l’uomo nasce “imparato”, né come specie né come individuo, ma si alimenta solo nei modi del tempo e del luogo del suo venire al mondo, o meglio, della sua inculturazione, del suo o anche dei suoi apprendimenti primari e di fondo.
In fatto di appetiti abbiamo solo quelli che la nostra cultura elabora e ci mette a disposizione, così come in fatto di rifiuti e di disgusti alimentari. In fatto di cibo i beni del mondo sembrano limitati solo perché le società umane decidono in modo limitante che cosa si può e si deve mangiare, decidono sempre di rifiutarne una parte come cibo.
In fatto di cibo le varie società decidono anche molte altre cose: oltre il che cosa mangiare e non mangiare, anche come, quando, perché, con chi, con una varietà talmente grande da far pensare alla più assoluta arbitrarietà, proprio in un campo in cui ogni cultura sembra considerare i propri usi e costumi come i più assolutamente naturali e necessari, tanto che il diverso da sé è diverso soprattutto perché mangia cose disgustose e innaturali. Tutto ciò che l’uomo fa invece mostra come egli sia un essere vivente che diventa ciò che è, cioè uomo, solo producendo le condizioni della sua esistenza, a cominciare dal cibo, che è tale per “decisione” umana e non per le sole caratteristiche naturali di chi mangia e di ciò che è mangiato.
Ciò che si mangia però è spesso anche imitato, frutto di contatto acculturante, se si pensa, per esempio, a quanto è stata importante per l’Europa moderna e contemporanea e per tutto il mondo l’acculturazione agroalimentare americana, detta scambio colombiano, cioè l’adozione soprattutto di piante alimentari precolombiane come il mais, la patata, il pomodoro, il fagiolo, il ficodindia, il peperone, il tabacco e tante altre.
E si nota come il senso comune (anche degli storici) ha sempre ignorato molto questa rivoluzione agro-alimentare moderna, che tra l’altro ha fatto diventare l’una o l’altra di queste piante, per esempio in Italia negli ultimi due secoli circa, parte immaginata perenne della propria identità irrinunciabile, come il pomodoro in Campania, il ficodindia in Sardegna, il peperoncino in Calabria, la polenta di mais nel Nord Italia, e così via come la patata in Europa centrale. Come prima ancora è accaduto, ed è ancora solo un esempio di acculturazione alimentare, per contatto con l’Oriente, con il riso, gli agrumi, il carciofo, il caffè, il tè, l’oppio e tante altre piante come il gelso per il baco da seta, tutte cose senza le quali il mondo, e l’Europa in particolare, sarebbe ben altro.
Il cibo, il nutrirsi che l’uomo condivide con tutti gli altri esseri viventi, non può che essere fatto sociale totale, che investe tutti gli aspetti del vivere, da quelli che consideriamo più materiali a quelli che consideriamo più intellettuali o estetici: da noi, mangiatori di pane, il pane è il pane, cioè cibo, ma anche simbolo del cibo e di molte altre cose, ed è anche sacramento, si fa Dio, e non lo è di meno il vino, e anche l’olio d’oliva.
Perché ciò che è buono da mangiare è buono e bello e giusto per vivere e anche per sopravvivere alla morte del corpo. E rimane necessario. Necessario anche se l’uomo non vive di solo pane, ma anche di beni che non si consumano individualmente quanto il pane, come quelli dello spirito che lungi dal consumarsi aumentano nella condivisione, e però per la cultura cristiana di origine mediterranea incominciano e si materializzano anch’essi nel pane, anche quando è corpo di Cristo e pane vivo disceso dal cielo.