Contorni: Dove sta il potere?
1 Ottobre 2016Giulio Angioni
La generalizzazione è utile tanto quanto la descrizione e l’analisi di singoli fenomeni, per chi si occupa di diversità e di invarianze culturali. Cogliere il particolare irripetibile e cogliere l’elementare umano è sempre punto di arrivo e di partenza.
Ciò vale anche per quel che diciamo potere, specie politico, che viviamo da millenni nelle forme varie di “Stato” più o meno gerarchizzato, con poteri più o meno drasticamente dislocati in parti della compagine sociale. Pare necessario però elaborare e usare una nozione di potere il più possibile generale, risultato dell’analisi della varietà di forme di potere: nozione allargata anche spazio-temporalmente alla vicenda umana, capace di intendere l’invarianza nella variazione e viceversa. Ampliare dunque le nozioni correnti e specialistiche di potere, che non solo nel senso comune sembrano convergere in una concezione precisa o vaga, generale o generica di potere come coercizione, spesso come inevitabile escrescenza malata della vita sociale, male minore per tenere a bada la malignità dell’uomo. O, come scrive Alberto M. Cirese, ogni società ha bisogno di “regole e ruoli, e dunque poteri: al plurale, data la pluralità delle rispettive sfere, ma non mai simmetrici (se tali fossero, cesserebbero di essere ‘poteri’)”. Il potere sarebbe dunque sempre, per sua natura, un rapporto sghembo, asimmetrico, gerarchico, da chi dispone a chi esegue?
Sia il senso comune sia le nozioni specialistiche come quelle della scienza politica postulano spesso almeno implicitamente che le cose non debbano, per la natura stessa del potere, essere così, e che, per capirne il caleidoscopio di manifestazioni e per intendere il potere come fenomeno umano elementare, generale e variabile, si possa e si debba avere una nozione di potere ben più ampia: tendenzialmente neutra, o anche positiva, di un’ampiezza suggerita da studiosi come Foucault, Bourdieu e soprattutto Gramsci, attenti a forme di potere recenti e attuali, concentrate e dislocate variamente nella forma che si dice stato, ma che, per anticipare il punto di arrivo del ragionamento, intendono il potere anche come potere di e non solo come potere su: potere di fare, di dire, di sentire, non solo potere di far fare, far dire, far sentire. Idea esplicita in utopismi moderni europei e di altri luoghi, come negli anarchismi, liberalismi e liberismi, tutti critici del potere nelle forme dello stato, come anche nell’idea socialista dell’estinzione dello stato, “cioè il riassorbimento della società politica nella società civile”, come scrive Gramsci.
Come la sessualità, per Foucault il potere, che egli vede dappertutto, “non è una fatalità, è possibilità di vita creativa. Ma è anche un male, per lui attento ai modi del potere gerarchico che, secondo Lévi-Strauss, sono forme di diseguaglianza organizzata politicamente, che però in positivo favorirebbe il cambiamento, perché le società stratificate sarebbero più calde, più dinamiche. Foucault sembra spesso pensare il potere come complesso del fare, del dire e del sentire umani, se non altro perché il potere si incorpora e attraverso i corpi organizza le masse umane in quanto biopotere, quindi biopolitica (e bioetica e bioestetica).
Un’altra concezione pessimista della natura umana, quella di Foucault? Certamente risentita, se anche lui spesso vede hobbesianamente ognuno avversario di ognuno o almeno di qualcuno, senza possibilità di vera liberazione dal disagio del ‘potere’, ma di lotta sì, almeno in forma di guerriglia individuale. Foucault, e con lui e prima di lui Nietzsche, vive drammaticamente la ‘scoperta’ moderna che il senso che si dà al mondo è un costrutto umano variabile: dunque si concentra sulla negazione di principi, origini e termini fissi e soprattutto su come le società umane costruiscono le loro riposte, spessissimo pretese sempiterne, al chi siamo e da dove veniamo e dove siamo e dove andiamo, cercando anche di giustificare in assoluto chi man mano si arroga il potere di farlo, costruendo verità provvisorie rivestite di eterno.
In Microfisica del potere e altrove Foucault rifiuta la concezione moderna (rivelatasi storicamente provvisoria) del potere politico a partire da Hobbes. Oggi, secondo Foucault, occorre una filosofia politica non pensata in termini di vecchia sovranità, di legge, di rappresentanza, e soprattutto non di proibizione. Al re bisogna tagliare la testa. Tutta la dottrina politica moderna sembra a Foucault pensata e realizzata sull’idea di evitare la catastrofe mediante argini di difesa contro la natura umana maligna. Ma gli pare illusorio correggere la natura con la politica, perché, rovesciando la definizione di Clausewitz, la politica è la guerra proseguita con altri mezzi: non tregua nel bellum omnium contra omnes, guerra e politica sarebbero due strategie belliche dovute a un maligno sostrato portante e permanente della vita associata.
Il ribellismo individuale è però smentito dalla tenacia stessa di Foucault nel voler comprendere, rivelare e smentire gli inganni e le pretese del potere così inteso. Il metodo genealogico, che Foucault mutua da Nietzsche, ancorato al riconoscimento dell’integrale storicità contingente di ogni fare, dire, sentire e pensare umano, non ricerca universali antropologici bensì la “storia effettiva”, rifiutando idee generali e fuorvianti come quella di “natura umana” e di altri universali culturali. Respinge le generalizzazioni sull’umanità per fare solo analisi puntuali, consciamente prospettiche e determinate, della fenomenologia storica del potere, eppure Foucault in fondo sembra ripetere la generalizzazione antica e moderna occidentale più denigratrice della natura umana: quella predatoria, per la quale il potere politico antico moderno e contemporaneo è una maschera per legittimarsi e nascondere il suo vero volto, il suo vero agire reso possibile e guidato dall’uso della forza. Idea che Foucault trova anche in Marx, secondo il quale il potere reale sfugge alle regole del diritto, dato che il suo istituirsi e il suo agire si basa su una disuguaglianza sostanziale mascherata di uguaglianza formale.
Ma mentre per Marx la disuguaglianza è strutturalmente tecno-socio-economica, per Foucault il potere non si basa sulla disuguaglianza economica, ma pare nascere e agire iuxta propria principia; e dunque per Foucault il potere dello stato non è, come sarebbe per Marx, l’insieme dei modi in cui i membri di una classe dominante realizzano i loro interessi comuni. Non volendo generalizzare, Foucault fa suo, in modo nuovo, un espediente epistemologico molto usato anche implicitamente, cioè l’autonomizzazione di un ambito riconosciuto della vita sociale: il potere, che però lui vede nell’interezza di un certo modo di vivere sociale, come aspetto o funzione onnipresente e totalizzante sia nel fare, sia nel dire e sia nel sentire, trovando il suo punto di aggancio nel corpo. E dunque il potere è tale perché produce continuamente il reale, il vero, l’utile, il giusto, il bello, costruendo continuamente i corpi e l’identità degli individui.